Alleluia! Per una volta la magistratura ha preso una
decisione giusta, anzi sacrosanta. Niente inglese come lingua esclusiva al Politecnico, lo zio Sam non sbarca più. E quindi nunc est bibendum.
Spumante, mica Coca-Cola o english tea. Perché, scherzi a parte,
impartire lezioni solo in albionico nelle università italiane sarebbe
stata una follia, un suicidio culturale e civile che poteva piacere solo
a Beppe Severgnini (contro si erano invece schierati da tempo Tullio
Gregory, Luca Serianni, Cesare Segre e Claudio Magris: e già questo dice
tutto). Pensate una cosa del genere in Francia, dove ci tengono
all’identità e alla grandeur: solo ad avanzare la proposta si sarebbe
stati ghigliottinati seduta stante. Da noi invece, inguaribili
esterofili dalla mentalità provinciale e servile tanto che siamo ansiosi
e soddisfatti di sentirci colonia («un volgo disperso» e dimentico
della virtù dei padri direbbe tuttora un Manzoni), un rettore e un
ministro ci hanno provato sul serio...
Assurdo sostenere che è una necessità di un mondo globalizzato sotto
le insegne dell’anglofonia, che servirebbe ad attirare talenti stranieri
(il nostro problema, piuttosto, è di non far fuggire i nostri; e poi,
se uno viene in Italia, dovrebbe essere proprio per sentire il sì
suonare) o a migliorare la posizione dei nostri atenei nelle classifiche
internazionali (viziate alla base proprio per il fatto che italica non
leguntur, ma questo è un diverso, complesso, discorso): non è certo per
l’inglese, che peraltro non è la lingua dell’architettura (e nemmeno
della giurisprudenza, della musica, della storia dell’arte, della
filosofia ecc. ecc.), come spiegava in un’intervista lo stesso preside
Pier Carlo Palermo, se non siamo paragonabili ad Harvard, ad Oxford o
alla Sorbona.
La missione delle università - italiane, tedesche, spagnole, russe o
del Burundi - è quella di fornire precisi saperi tecnici, contenuti,
non fuffa linguistica. Conoscere l’inglese dell’economia o
dell’ingegneria non significa conoscere l’economia o l’ingegneria. Gli
uomini devono avere idee; se sono buone, poi si troverà il modo di
comunicarle e diffonderle. Il più importante pensatore del Novecento,
Martin Heidegger, tanto per fare un esempio celebre, non parlava
inglese. Eppure tutti i filosofi, ancora oggi, anche a Boston o a
Londra, devono fare i conti con lui.
Gli attuali padroni del mondo, si ripete di continuo, parlano
inglese? E allora? Forse per questo dovremmo adeguarci senza combattere?
Tanto varrebbe mettersi buoni buoni, con lungimiranza, a studiare il
cinese... E comunque, come sosteneva Aristotele - capo del Peripato,
mica del Politecnico - a proposito della metafisica («Tutte le scienze
sono più necessarie di questa, ma nessuna migliore»), le cose
preferibili sono quelle che valgono di per sé e non in base alla loro
utilità pratica. Quindi niente inglese, che ormai, complice Internet,
conoscono pure i semianalfabeti, e niente cinese, usato da miliardi di
persone. Dopo l’italiano, se proprio amate le lingue e volete fare
concorrenza a Jean François Champollion, sceglietevi l’ittito o il
sanscrito.
articolo di Miska Ruggeri su Libero.it
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