martedì 28 maggio 2013

Niente inglese al Politecnico: "Evviva, abbiamo evitato un suicidio culturale"

Alleluia! Per una volta la magistratura ha preso una decisione giusta, anzi sacrosanta. Niente inglese come lingua esclusiva al Politecnico, lo zio Sam non sbarca più. E quindi nunc est bibendum. 

Spumante, mica Coca-Cola o english tea. Perché, scherzi a parte, impartire lezioni solo in albionico nelle università italiane sarebbe stata una follia, un suicidio culturale e civile che poteva piacere solo a Beppe Severgnini (contro si erano invece schierati da tempo Tullio Gregory, Luca Serianni, Cesare Segre e Claudio Magris: e già questo dice tutto). Pensate una cosa del genere in Francia, dove ci tengono all’identità e alla grandeur:  solo ad avanzare la proposta si sarebbe stati ghigliottinati seduta stante. Da noi invece, inguaribili esterofili dalla mentalità provinciale e servile tanto che siamo ansiosi e soddisfatti di sentirci colonia («un volgo disperso» e dimentico della virtù dei padri direbbe tuttora un Manzoni), un rettore e un ministro ci hanno provato sul serio...


Assurdo sostenere che è una necessità di un mondo globalizzato sotto le insegne dell’anglofonia, che servirebbe ad attirare talenti stranieri (il nostro problema, piuttosto, è di non far fuggire i nostri; e poi, se uno viene in Italia, dovrebbe essere proprio per sentire il sì suonare) o a migliorare la posizione dei nostri atenei nelle classifiche internazionali (viziate alla base proprio per il fatto che italica non leguntur, ma questo è un diverso, complesso, discorso): non è certo per l’inglese, che peraltro non è la lingua dell’architettura (e nemmeno della giurisprudenza, della musica, della storia dell’arte, della filosofia ecc. ecc.), come spiegava in un’intervista lo stesso preside Pier Carlo Palermo, se non siamo paragonabili ad Harvard, ad Oxford o alla Sorbona.

La missione delle università - italiane, tedesche, spagnole, russe o del Burundi -  è quella di fornire precisi saperi tecnici, contenuti, non fuffa linguistica. Conoscere l’inglese dell’economia o dell’ingegneria non significa conoscere l’economia o l’ingegneria. Gli uomini devono avere idee; se sono buone, poi si troverà il modo di comunicarle e diffonderle. Il più importante pensatore del Novecento, Martin Heidegger, tanto per fare un esempio celebre, non parlava inglese. Eppure tutti i filosofi, ancora oggi, anche a Boston o a Londra, devono fare i conti con lui. 

Gli attuali padroni del mondo, si ripete di continuo, parlano inglese? E allora? Forse per questo dovremmo adeguarci senza combattere? Tanto varrebbe mettersi buoni buoni, con lungimiranza, a studiare il cinese... E comunque, come sosteneva Aristotele - capo del Peripato, mica del Politecnico - a proposito della metafisica («Tutte le scienze sono più necessarie di questa, ma nessuna migliore»), le cose preferibili sono quelle che valgono di per sé e non in base alla loro utilità pratica. Quindi niente inglese, che ormai, complice Internet, conoscono pure i semianalfabeti, e niente cinese, usato da miliardi di persone. Dopo l’italiano, se proprio amate le lingue e volete fare concorrenza a Jean François Champollion, sceglietevi l’ittito o il sanscrito.

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