IL GENERE DEI SOSTANTIVI: La lingua italiana, come il tedesco e tutte le lingue (almeno) europee, discrimina il genere femminile sin dalla sua stessa grammatica.
Fino ad oggi, nei paesi dove il femminismo ha avuto una qualche risonanza (e
anche in Italia) il problema è stato affrontato femminilizzando i mestieri e sostantivi ritenuti tradizionalmente
prerogativa maschile.
Professore-professoressa, ministro-ministra ecc.
Nei casi in cui si indica un gruppo di
persone composto da entrambi i sessi, si indicano entrambe le finali, il
più delle volte mettendo al primo posto il maschile, che è poi la forma “tradizionale”
(“tutti/e”), talvolta anteponendo il
genere femminile, come sorta di risarcimento dei secoli di dominazione della
grammatica maschilista (se una grammatica davvero può essere maschilista). Più
recente l’usanza, tutta italiana, di annullare il suffisso indicante il genere e sostituirlo con un
asterisco: “tutt*”. Più economico,
rende giustizia non solo del sesso, ma anche della sessualità: come dire, “vedete
voi se volete essere definiti al maschile o al femminile”.
Questa è l’usanza che, iniziata negli anni ’80,
ancora oggi in Italia stenta a imporsi, tanto che persino alcune donne non amano essere “declinate” al femminile; forse
per una sorta di “vergogna” imposta dalla società maschilista, forse per
semplice fedeltà (leggi: abitudine) linguistica. Fatto sta che, a mio
modestissimo avviso, questa convenzione,
una volta doverosamente imposta in tutti gli scritti della lingua, sarebbe stata in grado, finalmente, di
riconoscere sin dal punto più intimo della lingua – la grammatica – la parità dei sessi. Si sarebbe
cancellata ogni sottintesa superiorità di uno sull’altro. Così la penso. Ma c’è
chi è andato ancora più in là. In Germania, per la precisione.
Luise Pusch |
IL ‘FEMMINISMO GENERICO’: Non più di due mesi fa
circolò una notizia a cui non diedi molto peso: era la “rivoluzione” grammaticale operata dall’Università di Lipsia,
che ha deciso di fare a meno del doppio genere (in tedesco “Professor/in”). In
sostanza hanno eliminato la barra obliqua e unito il suffisso femminile alla
parola: hanno cioè lasciato solo la
forma femminile, e la useranno per rivolgersi anche ai professori uomini.
Scusate, volevo dire professoresse
uomini. Iniziativa etichettata "femminismo generico".
Quando poco tempo fa lessi la notizia, dicevo, reagii
con un’alzata di spalle, non mi colpì granché, sarà perché sono un uomo.
Eppure, mi capitò di ripensarci più volte, c’era
qualcosa che non mi tornava. Ho quindi approfondito un po’ la cosa, facendo
qualche veloce ricerchina su Google,
e ho scoperto che, in effetti, è solo un
primo passo verso un obiettivo ben preciso: rendere la lingua completamente
neutra. Anche l’Enciclopedia
Nazionale Svedese, poche settimane fa, ha introdotto nel vocabolario il pronome “hen”, accanto, e in
alternativa, al maschile “han” e al femminile “hon”. E così lo Stato di
Washington ha approvato di recente una legge che traduce in modo neutro tutti i termini in cui è presente il
sostantivo “man”, dato che potrebbero apparire discriminatori.
C’è da dire che un merito, un grande merito, dell’iniziativa messa in atto a
Lipsia, c’è, ed è quello di essere “un
cambiamento che obbliga le persone a pensare, a riflettere sul
dominio maschile del linguaggio e sull’intrinseca discriminazione”, come
afferma Luise Pusch, una delle linguiste più sensibili alla questione. Questo è
innegabilmente vero: immaginate di dover
chiamare il vostro professore “professoressa”, o il presidente Letta “presidentessa”.
Fa riflettere, eccome! Fa riflettere soprattutto gli uomini, che sentono su sè stessi, all’improvviso, tutta la carica
sessista dei sostantivi solo al maschile. Chi di maschile ferisce, di
femminile perisce…
SI, MA… : Eppure c’è qualcosa che non mi torna. Chiamare “professore” una professoressa è
ingiusto, e invece l’inverso è giustizia? Mi sembra piuttosto una vendetta, cioè niente di più lontano
dalla giustizia. Ora, io non sono un filosofo-giurista, ma… mi sento di affermare che due ingiustizie non
fanno una giustizia. Se, come ritengo, rendere evidente la presenza di
entrambi i sessi, col vecchio sistema
della barra obliqua, portava all’uguaglianza grammaticale (perché di questo
si tratta: puoi cambiare tutte le parole che vuoi, ma quel che contano sono i
fatti, stipendi inferiori, maggiori difficoltà
nel trovare lavoro, aggressioni e stupri…), così invece non si fa che discriminare
gli uomini.
“E allora?” Mi risponde qualche femminista
agguerrita. E allora io sono contro
qualsiasi tipo di discriminazione, e anche tu, femminista cara, dovresti:
se le donne sono la metà della popolazione mondiale, non dimentichiamo che l’altra
metà è fatta di uomini. “Le parole sono una forma di potere”, fa
notare Nancy Heitzig, professoressa di sociologia alla St. Caterine
University che saluta positivamente l’iniziativa. “Quando la lingua ha
connotazioni di genere, anche se non ci facciamo caso, il messaggio implicito è che si tratti di un mondo al maschile”.
Vero (in parte). Ma allora, è vero anche nell’altro senso! E ancora “Ogni frase
che si riferisce alle persone, ma usa il maschile, dà origine a un’associazione
nella mente di chi ascolta e questo è uno svantaggio per le donne”,
afferma Luise Pusch. E quindi, non sarà forse vero anche nel senso inverso?
Insomma, se l’uguaglianza non c’era prima, non è
certo escludendo il maschile che la si raggiungerà: non si fa che mettere più peso sull’altro
piatto della bilancia… e l’ago segnerà la parte opposta, mai il centro. Già, il centro: in questo caso, “il neutro”.
Nancy Heitzig (a sinistra) |
IL NEUTRO: Se non sono un filosofo-giurista, non
sono neanche un filosofo-linguista: ma di filosofia
del linguaggio ne so qualcosina in più. Sarà che sono un patito del secondo Wittgenstein, e che la sua
teoria sugli “inganni del linguaggio”
mi ha convinto particolarmente… ma mi chiedo: se l’obiettivo è il neutro,
allora che bisogno c’è di fare tutto questo? Questo genere di iniziative, mi
pare, sta prendendo sempre più la forma di una guerra fra i generi… la più
spaventosa delle guerre immaginabili.
In parole povere – e qui siamo proprio alla base
basilare e basica del pensiero sul linguaggio (De Saussure) – le parole non hanno nessun significato “innato”.
Nessuno. Hanno senso solo in
rapporto con le altre, solo nella differenza che hanno con le altre. Ma già sto
complicando il discorso. Mettiamola così: il concetto di “arbitrarietà” del
linguaggio è quel concetto che ci dice che: la parola “tavolo” significa “tavolo” solo perché noi le diamo quel
significato. Infatti, per un inglese, la parola “tavolo” non significa
proprio nulla, non è nemmeno una parola. Chiaro no? da questa semplicissima
banalità sono nate fior fiore di discussioni teorie e pensieri filosofici che
non sto a dirvi. Ma che il “tavolo” sia
un nome maschile, e “sedia” un nome femminile, rientra in questa logica: è
così solo perché lo decidiamo noi, per convenzione. PER CONVENZIONE.
Capite dove voglio arrivare? Facciamo intervenire
Wittgenstein – il cui pensiero, ahimè, ha concetti molto più complessi e
confusi. In due parole: inizialmente il buon filosofo, allievo di B. Russel (il
grande logico matematico), elaborò una teoria secondo cui il linguaggio umano era esattamente lo specchio della realtà, e che
la carica di verità o falsità di un’affermazione era quindi “esterna” all’affermazione:
se io dico “il tavolo è rosso” non c’è altro modo per sapere se dico la verità
che guardare il tavolo, e verificarne il colore. Banale, anche questo concetto,
no?
Ludwig Wittgenstein |
Già: ma se
una lingua ha un diverso sistema di classificazione dei colori? Se io
chiamo arancione ciò che per te è rosso, non ci potremo mai mettere d’accordo:
eppure la realtà (la presenza del tavolo) sta lì, è oggettiva. Oppure: se io
dico che ho mal di denti, come faccio a sapere che il mio mal di denti sia lo
stesso che provi tu? Non posso, semplice. Ecco allora il “secondo”
Wittgenstein, che proprio dal problema dei colori riformula e distrugge la
propria teoria giovanile.
Ma mi sono dilungato troppo… insomma, qui entra
il concetto degli “inganni del linguaggio”: il linguaggio ci sembra che descriva la realtà per quello che è, ma non
è affatto vero! Ci sembra che il linguaggio rifletta perfettamente la realtà;
e se la realtà è maschilista – eccome se lo è – allora lo è anche il
linguaggio. Ma se tutto questo è un inganno, e se il linguaggio è arbitrio per
eccellenza… basta DECIDERE che “ministro” sia neutro. Così come, è vero, si
potrebbe anche decidere che “ministra” sia neutro e adottare solo questa forma…
SI, PERÒ… : Dopo tutta questa pesante filosofia,
un po’ di letteratura, per svagarci.
Una lingua
che unisce gli opposti in modo da annullare ogni possibile contrasto è già
stata immaginata… da un certo George Orwell,
in un libro intitolato 1984. E quella storia non finiva per niente bene...
Ant.Mar.
L'attuale convenzione secondo la quale "ministro" è maschile è troppo radicata e decidere che "ministro" sia neutro sarebbe come il plurale maschile per il generico-il Generico-. Unire gli opposti per eliminare i contrasti? No, ma i contrasti non dovrebbero vedere l'ago della bilancia pendere inesorabilmente verso l'uno dei due poli. Dovrebbero persistere (ed esistere sempre) le due forme maschile e femminile,senza che nella realtà l'uno prevarichi sull'altro.
RispondiEliminaVery creativee post
RispondiElimina