LA DECISIONE del Senato Accademico del Politecnico di adottare, a
partire dal 2014, l'inglese come lingua esclusiva per le lauree
magistrali e i dottorati è stata presa senza alcuna consultazione del
corpo docente e a dispetto di una forte opposizione interna.
Una
simile decisione travalica le prerogative dell'organo di gestione per
due ragioni: in primo luogo è in contrasto con la Costituzione;e poi si
configura come una violazione delle regole di governo degli atenei,
che in fatto di insegnamento hanno prerogative di indirizzo e di
coordinamento: sui contenuti e sui modi dell'insegnamento sono tenuti a
favorire l'armonizzazione degli apporti dei docenti nel rispetto della
libertà di insegnamento. Tale armonizzazione non può che procedere da
un dialogo che metta al centro gli interessi degli studenti e della
società e non può avere alcun carattere prescrittivo.
Qualche
altra considerazione. Al Politecnico esistono già filoni d'insegnamento
in inglese. Basta questo per rispondere all'obiettivo
dell'internazionalizzazione dell'università. È sintomatico che la
lingua sia l'unico argomento affrontato dal Senato del Politecnico sul
terreno della formazione. L'organo di governo non si interroga e non si
documenta sulla qualità della didattica. Se lo facesse, riscontrerebbe
tra i propri laureati un deficit sul terreno della capacità
argomentativae della produzione di pensiero. Non è certo
l'inglesizzazione forzata la chiave per affrontare questo ordine di
questioni.
CI SONO molte lingue in regresso, quando non
addirittura morenti; e ci sono poche lingue in espansione. Queste
ultime, diversamente da quanto accadeva in passato, quanto più si
allontanano dai contesti relazionali in cui sono nate, tanto più
sembrano perdere in ricchezza e incisività: la crescente forza
veicolare sembra andare a discapito della presa sui fatti e sulle cose:
dell' inventio che da sempre ha fatto la vitalità di una lingua.
L'omologazione avviene al ribasso, ci fa scivolare verso una lingua basica: un minimo comun denominatore povero e ingessato.
E
la marcia trionfale dell'inglese sembra avere come contrappasso
l'impoverimento culturale. La nuova Babele potrebbe presentarsi sotto
altra forma: non la confusione delle lingue ma uno svuotamento del
potenziale semantico per eccesso di espansione. Ancora: sul terreno
della formazione, le decisioni e le pratiche in fatto di lingua sono
intimamente legate alla concezione della scuola e dell'università. La
didattica universitaria è un mero ambito di trasferimento di saperi o
un contesto relazionale in cui si impara ad argomentare, a misurarsi
con la costruzione di un pensiero,a praticare la conoscenza? Abitare
l'intima natura di una lingua comporta che si assuma l'abito di
produttori, di fabbri della lingua, non di consumatori.
Può
allora l'università italiana rinunciare all'uso della lingua madre? Si
sa: la dimestichezza con l'inglese e con altre lingue è sempre più una
necessità, ma nelle strutture preposte alla formazione la scelta
dell'inglese come lingua obbligatoria ed esclusiva è la strada giusta o
non piuttosto una scorciatoia? La strada scelta dal rettore e dal
Senato accademico del Politecnico potrà rivelarsi illusoria e
controproducente sul medio-lungo periodo: non utile agli studenti e, se
si estendesse, nefasta per l'intero Paese.
Infine, nel processo
formativo l'adozione di un monolinguismo esclusivo garantisce un
potenziale decisamente inferiore rispetto al plurilinguismo.
L'indirizzo strategico da perseguire è semmai quella del
plurilinguismo. Ma va fatto senza forzature, riconoscendo che in Italia
il deficit su questo fronte si crea soprattutto prima dell'università,
nella scuola media e media superiore.
Articolo di Giancarlo Consonni su Repubblica.it
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