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sabato 11 gennaio 2014

“GLI” : UNA PROVA DELLA PARITÀ DEI SESSI NELLA SOCIETÀ CHE SI RIFLETTE NELLA LINGUA?



Spesso si sentono delicate orecchie puriste lamentarsi per l’ormai diffusissimo uso generalizzato del “gli” per indicare non solo il dativo di lui (a lui), ma anche per il femminile “a lei”, che la tradizione vorrebbe che sia “le”, e il plurale (femminile e maschile) che la norma vuole che sia “loro” messo dopo il verbo. 

Gli ho dato un bacio vs. le ho dato un bacio vs ho dato loro un bacio: oggi “gli ho dato un bacio” può essere usato per indicare tutti e tre i casi.

Per il plurale soprattutto, è ormai una rarità sentire “loro” posposto, se non in ambiti molto controllati e tra persone di una certa cultura e di molta attenzione. Personalmente non ci vedo niente di male, anzi, mi pare decisamente più semplice il “gli”, per cui, niente da dire.

Vorrei invece riflettere sull’uso ambivalente, per non dire neutro, del “gli” che si sostituisce al “le”.
Se colleghiamo questo uso che ormai sembra essersi imposto nella maggioranza dei casi (anche se meno, mi pare, del “gli” plurale) con la “battaglia” per femminilizzare i lavori tradizionalmente maschili – e viceversa – la cosa si fa molto interessante.

Le ipotesi possibili sono due.

sabato 6 luglio 2013

CHI DI MASCHILE FERISCE, DI FEMMINILE PERISCE: UNA RIFLESSIONE SUL SESSISMO DELLA LINGUA



IL GENERE DEI SOSTANTIVI: La lingua italiana, come il tedesco e tutte le lingue (almeno) europee, discrimina il genere femminile sin dalla sua stessa grammatica. Fino ad oggi, nei paesi dove il femminismo ha avuto una qualche risonanza (e anche in Italia) il problema è stato affrontato femminilizzando i mestieri e sostantivi ritenuti tradizionalmente prerogativa maschile

Professore-professoressa, ministro-ministra ecc. Nei casi in cui si indica un gruppo di persone composto da entrambi i sessi, si indicano entrambe le finali, il più delle volte mettendo al primo posto il maschile, che è poi la forma “tradizionale” (“tutti/e”), talvolta anteponendo il genere femminile, come sorta di risarcimento dei secoli di dominazione della grammatica maschilista (se una grammatica davvero può essere maschilista). Più recente l’usanza, tutta italiana, di annullare il suffisso indicante il genere e sostituirlo con un asterisco: tutt*. Più economico, rende giustizia non solo del sesso, ma anche della sessualità: come dire, “vedete voi se volete essere definiti al maschile o al femminile”. 

Questa è l’usanza che, iniziata negli anni ’80, ancora oggi in Italia stenta a imporsi, tanto che persino alcune donne non amano essere “declinate” al femminile; forse per una sorta di “vergogna” imposta dalla società maschilista, forse per semplice fedeltà (leggi: abitudine) linguistica. Fatto sta che, a mio modestissimo avviso, questa convenzione, una volta doverosamente imposta in tutti gli scritti della lingua, sarebbe stata in grado, finalmente, di riconoscere sin dal punto più intimo della lingua – la grammatica – la parità dei sessi. Si sarebbe cancellata ogni sottintesa superiorità di uno sull’altro. Così la penso. Ma c’è chi è andato ancora più in là. In Germania, per la precisione.

Luise Pusch
IL ‘FEMMINISMO GENERICO’: Non più di due mesi fa circolò una notizia a cui non diedi molto peso: era la “rivoluzione” grammaticale operata dall’Università di Lipsia, che ha deciso di fare a meno del doppio genere (in tedesco “Professor/in”). In sostanza hanno eliminato la barra obliqua e unito il suffisso femminile alla parola: hanno cioè lasciato solo la forma femminile, e la useranno per rivolgersi anche ai professori uomini. Scusate, volevo dire professoresse uomini. Iniziativa etichettata "femminismo generico".


Quando poco tempo fa lessi la notizia, dicevo, reagii con un’alzata di spalle, non mi colpì granché, sarà perché sono un uomo. Eppure, mi capitò di ripensarci più volte, c’era qualcosa che non mi tornava. Ho quindi approfondito un po’ la cosa, facendo qualche veloce ricerchina su Google, e ho scoperto che, in effetti, è solo un primo passo verso un obiettivo ben preciso: rendere la lingua completamente neutra. Anche l’Enciclopedia Nazionale Svedese, poche settimane fa, ha introdotto nel vocabolario il pronome “hen”, accanto, e in alternativa, al maschile “han” e al femminile “hon”. E così lo Stato di Washington ha approvato di recente una legge che traduce in modo neutro tutti i termini in cui è presente il sostantivo “man”, dato che potrebbero apparire discriminatori.

lunedì 15 aprile 2013

IL LINGUAGGIO SESSISTA DELLE LEGGI ITALIANE


(di Federica Muzzi)
Una nuova legge sulla fecondazione assistita al Parlamento italiano (e alla Chiesa) non interessa. Non gli interessa nemmeno curare il linguaggio usato nel testo dell’unica legge sull’argomento, la 40/2004. Proprio di questo mi sono occupata nella mia tesi magistrale in Traduzione Specializzata, poco attinente al nome della professione che da una settimana mi segue: «traduttrice».

Ho voluto, un po’ per dovere e un po’ per piacere, occuparmi delle prospettive di genere e del sessismo nella nostra lingua, un fenomeno diffusissimo di cui non ci accorgiamo neppure. È difficile che ci accorgiamo, e ancora di più che ci indigniamo, se l’ultimo politico di turno ci chiama «i cittadini» (non siamo forse cittadine?) o se sui media ascoltiamo o leggiamo «gli anziani, le donne e i bambini» (perché dobbiamo essere una categoria a parte? Qualcuno ha mai detto «gli anziani, gli uomini e i bambini»?). E invece dovremmo stupirci, arrabbiarci, lamentarci, perché la nostra è una lingua sessista.