lunedì 15 aprile 2013

IL LINGUAGGIO SESSISTA DELLE LEGGI ITALIANE


(di Federica Muzzi)
Una nuova legge sulla fecondazione assistita al Parlamento italiano (e alla Chiesa) non interessa. Non gli interessa nemmeno curare il linguaggio usato nel testo dell’unica legge sull’argomento, la 40/2004. Proprio di questo mi sono occupata nella mia tesi magistrale in Traduzione Specializzata, poco attinente al nome della professione che da una settimana mi segue: «traduttrice».

Ho voluto, un po’ per dovere e un po’ per piacere, occuparmi delle prospettive di genere e del sessismo nella nostra lingua, un fenomeno diffusissimo di cui non ci accorgiamo neppure. È difficile che ci accorgiamo, e ancora di più che ci indigniamo, se l’ultimo politico di turno ci chiama «i cittadini» (non siamo forse cittadine?) o se sui media ascoltiamo o leggiamo «gli anziani, le donne e i bambini» (perché dobbiamo essere una categoria a parte? Qualcuno ha mai detto «gli anziani, gli uomini e i bambini»?). E invece dovremmo stupirci, arrabbiarci, lamentarci, perché la nostra è una lingua sessista.


E ancora prima della lingua, che rispecchia le volontà dei suoi parlanti, lo è la nostra cultura.
Prospettiva di genere nelle normative italiane e spagnole. Studio delle leggi dei due paesi sulla fecondazione assistita è il titolo della tesi: si tratta in realtà di uno studio approfondito della lingua utilizzata nei testi delle leggi spagnole e italiane in materia della cosiddetta procreazione medicalmente assistita.

Le differenze tra le due normative sono evidenti, oltre a essere molte. La diversità, però, deriva unicamente dalla storia che le leggi sulla fecondazione assistita hanno avuto: lineare e diretta in Spagna, discussa e tortuosa in Italia. Forse vale la pena fare un breve riassunto. In Italia il primo progetto di legge per regolare la riproduzione assistita risale al 1958, quando la Dc presentò un testo titolato Divieto di inseminazione artificiale e sua disciplina giuridica, che lascia molto chiara la posizione presa dal partito. Fortunatamente il progetto non andò in porto, ma la questione fu dimenticata.

Il silenzio venne rotto nel 1998, quando fu presentato alla Camera un primo testo unificato, che venne però considerato troppo permissivo (consentiva anche l’inseminazione eterologa, ovvero quella ottenuta con i gameti di un donatore esterno alla coppia) e in seguito rivoluzionato, fino ad arrivare all’approvazione della restrittiva legge 40, nata per limitare un fenomeno in costante aumento. Già l’anno successivo si chiese agli italiani di recarsi alle urne per votare quattro quesiti abrogativi, referendum al quale votò solo il 25,6% della popolazione, il minimo storico.

La prima legge spagnola in materia è, invece, una delle più antiche: in seguito alla prima nascita in provetta avvenuta sul territorio nazionale, nel 1984, il Parlamento formò una commissione speciale che studiasse la situazione sotto diversi aspetti (medicina, giurisprudenza, etica, ecc.) e, sulla base di una relazione – nota come Informe Palacios – che pubblicò il personale incaricato, procedette alla stesura e all’approvazione di una legge particolarmente innovativa, che, a differenza di quella italiana, nasceva per tutelare tutte le persone coinvolte negli interventi di procreazione assistita.

Questo percorso dall’ideazione alla promulgazione delle leggi si vede riflesso nel linguaggio utilizzato nei testi a diversi livelli. Innanzitutto è evidente come la legge italiana sia restrittiva dall’uso diffuso di termini negativi come «vietato», «proibito» o di termini positivi subito limitati da locuzioni come «a condizione che» o «solo se», esempi assenti nelle tre leggi spagnole che, invece, presentano solo espressioni permissive, essendo appunto pensate per permettere tecniche nuove che aiutino le donne e le famiglie (tradizionali e non).

Ma ancora di più la differenza tra le legislazioni di questi due Paesi mediterranei e, almeno a parole, culturalmente simili è da notare nel comportamento tenuto nei confronti della figura femminile: in italiano assente, sempre nascosta dietro quei maschili plurali chiamati, in linguistica, maschili non marcati (ovvero maschili come “tutti i cittadini” che vogliono inglobare anche la forma femminile) e in spagnolo più presenti, già nel 1988, quando la sensibilità linguistica e sociale nei confronti della donna era sicuramente minore.

Gli esempi che analizzo nel mio studio sono molti, ma alcuni sono più eclatanti di altri. In primis ho osservato come, sin dalla prima legge, precedente a quella (unica) italiana di ben 16 anni, lo spagnolo si mostri più sensibile, usando termini come «equipo médico» (equivalente alla nostra «équipe», o letteralmente «squadra»), mentre l’italiano ancora nel 2004 si ostina a elencare le professioni mediche unicamente al maschile (primo tra tutti «ginecologo», che è una professione praticata anche da numerose donne), soprattutto in considerazione del fatto che il testo è recente. Come questo esempio ce ne sono molti altri, come la presenza nei testi iberici di parole più corrette come «persona humana» (in italiano viene usato invece «soggetto»), «mujer usuaria» (ovvero «utente donna». Non è, in fondo, la donna a sottoporsi a interventi di fecondazione?), «descendencia» (per indicare la prole, termine non usato in italiano, a cui viene preferito sempre il maschile «nato», «nascituro», «figlio») o «personal» (per inglobare tutti i lavoratori e le lavoratrici ed evitare così un ulteriore maschile non marcato).

Sembra quasi che in Spagna abbiano studiato a fondo le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua di Alma Sabatini e in Italia, patria della studiosa, si sia deciso di ignorare – ancora un volta, in una legge che rientra nell’ambito dei diritti della persona – la figura femminile, come se fossimo bendati e non vedessimo un fenomeno grave come quello del sessismo nella lingua. Durante la discussione di laurea un professore mi ha chiesto se la diversità di linguaggio adottato dai testi sia dovuta al contesto socio-culturale dei Paesi o al sistema linguistico più o meno flessibile.

Non ho dovuto pensarci: la nostra lingua – derivando dal latino – è molto simile allo spagnolo, eppure qui non riusciamo ancora a dire «ministra»

(articolo di Federica Muzzi, su corriere.it)

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