(di Federica Muzzi)
Una nuova legge sulla fecondazione assistita al Parlamento italiano (e alla Chiesa) non interessa. Non gli interessa nemmeno curare il linguaggio usato nel testo dell’unica legge sull’argomento, la 40/2004. Proprio di questo mi sono occupata nella mia tesi magistrale in Traduzione Specializzata, poco attinente al nome della professione che da una settimana mi segue: «traduttrice».
Una nuova legge sulla fecondazione assistita al Parlamento italiano (e alla Chiesa) non interessa. Non gli interessa nemmeno curare il linguaggio usato nel testo dell’unica legge sull’argomento, la 40/2004. Proprio di questo mi sono occupata nella mia tesi magistrale in Traduzione Specializzata, poco attinente al nome della professione che da una settimana mi segue: «traduttrice».
Ho voluto, un po’ per dovere e un po’ per piacere,
occuparmi delle prospettive di genere e del sessismo nella nostra lingua,
un fenomeno diffusissimo di cui non ci accorgiamo neppure. È difficile che ci
accorgiamo, e ancora di più che ci indigniamo, se l’ultimo politico di turno ci
chiama «i cittadini» (non siamo forse cittadine?) o se sui media ascoltiamo o
leggiamo «gli anziani, le donne e i bambini» (perché dobbiamo essere una
categoria a parte? Qualcuno ha mai detto «gli anziani, gli uomini e i bambini»?).
E invece dovremmo stupirci, arrabbiarci, lamentarci, perché la nostra è una
lingua sessista.
E ancora prima della lingua, che rispecchia le volontà
dei suoi parlanti, lo è la nostra cultura.
Prospettiva di genere nelle normative italiane e
spagnole. Studio delle leggi dei due paesi sulla fecondazione assistita è il titolo della tesi: si
tratta in realtà di uno studio approfondito della lingua utilizzata nei testi
delle leggi spagnole e italiane in materia della cosiddetta procreazione
medicalmente assistita.
Le differenze tra le due normative sono evidenti,
oltre a essere molte. La diversità, però, deriva unicamente dalla storia che le
leggi sulla fecondazione assistita hanno avuto: lineare e diretta in Spagna,
discussa e tortuosa in Italia. Forse vale la pena fare un breve riassunto. In
Italia il primo progetto di legge per regolare la riproduzione assistita risale
al 1958, quando la Dc presentò un testo titolato Divieto di inseminazione artificiale e sua disciplina
giuridica,
che lascia molto chiara la posizione presa dal partito. Fortunatamente il
progetto non andò in porto, ma la questione fu dimenticata.
Il silenzio venne rotto nel 1998, quando fu presentato
alla Camera un primo testo unificato, che venne però considerato troppo
permissivo (consentiva anche l’inseminazione eterologa, ovvero quella ottenuta
con i gameti di un donatore esterno alla coppia) e in seguito rivoluzionato,
fino ad arrivare all’approvazione della restrittiva legge 40, nata per limitare
un fenomeno in costante aumento. Già l’anno successivo si chiese agli italiani
di recarsi alle urne per votare quattro quesiti abrogativi,
referendum al quale votò solo il 25,6% della popolazione, il minimo storico.
La prima legge spagnola in materia è, invece, una
delle più antiche: in seguito alla prima nascita in provetta avvenuta sul
territorio nazionale, nel 1984, il Parlamento formò una commissione speciale
che studiasse la situazione sotto diversi aspetti (medicina, giurisprudenza,
etica, ecc.) e, sulla base di una relazione – nota come Informe Palacios – che
pubblicò il personale incaricato, procedette alla stesura e all’approvazione di
una legge particolarmente innovativa, che, a differenza di quella
italiana, nasceva per tutelare tutte le persone coinvolte negli interventi
di procreazione assistita.
Questo percorso dall’ideazione alla promulgazione
delle leggi si vede riflesso nel linguaggio utilizzato nei testi a diversi
livelli. Innanzitutto è evidente come la legge italiana sia restrittiva
dall’uso diffuso di termini negativi come «vietato», «proibito» o di
termini positivi subito limitati da locuzioni come «a condizione che» o «solo
se», esempi assenti nelle tre leggi spagnole che, invece, presentano solo
espressioni permissive, essendo appunto pensate per permettere tecniche
nuove che aiutino le donne e le famiglie (tradizionali e non).
Ma ancora di più la differenza tra le legislazioni di
questi due Paesi mediterranei e, almeno a parole, culturalmente simili è da
notare nel comportamento tenuto nei confronti della figura femminile: in
italiano assente, sempre nascosta dietro quei maschili plurali chiamati, in
linguistica, maschili non marcati (ovvero maschili come “tutti i cittadini” che
vogliono inglobare anche la forma femminile) e in spagnolo più presenti, già
nel 1988, quando la sensibilità linguistica e sociale nei confronti della donna
era sicuramente minore.
Gli esempi che analizzo nel mio studio sono molti, ma
alcuni sono più eclatanti di altri. In primis ho osservato come, sin dalla
prima legge, precedente a quella (unica) italiana di ben 16 anni, lo spagnolo
si mostri più sensibile, usando termini come «equipo médico»
(equivalente alla nostra «équipe», o letteralmente «squadra»), mentre
l’italiano ancora nel 2004 si ostina a elencare le professioni mediche
unicamente al maschile (primo tra tutti «ginecologo», che è una
professione praticata anche da numerose donne), soprattutto in considerazione
del fatto che il testo è recente. Come questo esempio ce ne sono molti altri,
come la presenza nei testi iberici di parole più corrette come «persona
humana» (in italiano viene usato invece «soggetto»), «mujer
usuaria» (ovvero «utente donna». Non è, in fondo, la donna a sottoporsi a
interventi di fecondazione?), «descendencia» (per indicare la prole,
termine non usato in italiano, a cui viene preferito sempre il maschile «nato»,
«nascituro», «figlio») o «personal» (per inglobare tutti i lavoratori e le
lavoratrici ed evitare così un ulteriore maschile non marcato).
Sembra quasi che in Spagna abbiano studiato a fondo le
Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua di
Alma Sabatini e in Italia, patria della studiosa, si sia deciso di ignorare –
ancora un volta, in una legge che rientra nell’ambito dei diritti della persona
– la figura femminile, come se fossimo bendati e non vedessimo un fenomeno
grave come quello del sessismo nella lingua. Durante la discussione di laurea
un professore mi ha chiesto se la diversità di linguaggio adottato dai testi
sia dovuta al contesto socio-culturale dei Paesi
o al sistema linguistico più o meno flessibile.
Non ho
dovuto pensarci: la nostra lingua – derivando dal latino – è molto simile allo
spagnolo, eppure qui non riusciamo ancora a dire «ministra».
(articolo di Federica Muzzi, su corriere.it)
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