19 Aprile 2013: Si è svolta a Roma la
conferenza “Parlare civile”, in occasione dell'uscita dell’omonimo libro.
IL PARLARE CIVILE: Stefano Trasatti, direttore dell'agenzia
Redattore Sociale, presentando il libro "Parlare
civile", durante l'omonimo seminario che si è svolto ieri a Roma, lo
ha definito "un libro di servizio per segnalare l'uso sbagliato di alcune
parole e, quando possibile, suggerire delle possibili alternative,
consapevoli che si tratta di un lavoro
che sarà accolto con diffidenza, come intralcio al lavoro giornalistico".
"Penso che non si debba aver paura delle parole, che vanno usate bene e
trattate bene, perché sono convenzioni che danno una forma alla realtà -
continua Trasatti -, ma allo stesso tempo
non bisogna essere integralisti ma
consci dei limiti del linguaggio".
Per il sociologo Enrico Pugliese – tra gli esperti del comitato scientifico
che ha partecipato alla realizzazione del volume – si tratta di un "lavoro eccellente": “personalmente ho paura dell'afasia e delle perifrasi ma credo sia necessario
evitare l'uso delle parole che provocano dolore e sofferenza agli
interessati". Come è successo ad esempio con l’uso di "negro"
in America: "A un certo punto i neri hanno deciso che non volevano più essere
chiamati né nigros né colored. E si è camabiato l'uso del termine".
Analogo è il caso di
"clandestino", di cui si fa un uso distorto perché troppo
estensivo: "Si può usare se ci si
riferisce ai clandestini, che sono una
porzione ridotta degli immigrati irregolari, che sono una porzione ridotta
degli immigrati. Altrimenti si mente sui termini per imbrogliare o per pura
ignoranza".
Antonio D'alessandro, presidente di Parsec consortium, spiega che l’idea non è venuta all’improvviso: "il
problema della poca attenzione alle tematiche sociali il nostro mondo se lo è posto più di 30 anni fa, e
un'agenzia come Redattore Sociale nasce da queste esigenze e per rafforzare la
possibilità di comunicare in maniera corretta le nostre problematiche".
Il direttore nazionale
dell'Unar, Marco De Giorgi ha
ricordato che le "parole sono muri o ponti:
l'uso linguaggio per questo è fondamentale, attraverso i media si
consumano casi di discriminazione". In questo contesto il quadro giuridico per De Giorgi è ancora carente e molto è affidato
all'iniziativa volontaria: "Servono
leggi e una ferrea volontà politica per combattere la discriminazione, ma noi
siamo al lavoro perché le garanzie non restino solo sulla carta e perché la
società sia sempre più preparata rispetto a questi temi, e questa è una grande
responsabilità del giornalismo".
Stefano Trasatti |
Durante l'incontro Perla Moringi ha letto il monologo
scritto da don Vinicio Albanesi "Il
mio nome sul campanello" su un ragazzo con Hiv conclamato morto per
overdose nei bagni della stazione Termini. "Se i giornalisti frequentassero di più questi mondi non avremmo le
categorie ma le persone - sottolinea Albanesi -. Il problema non sono tanto le parole ma i contesti: chi scrive di
sociale non può essere razzista. Per creare la notizia spesso si è portati a
un'accentuazione vigliacca e stupida, ma usare
le parole corrette non significa essere buonisti".
Interessante l’affermazione del
presidente dell'Odg Enzo Iacopino, che
ha sottolineato che "stiamo
accumulando carte deontologiche su carte deontologiche, ma le parole non sono
suoni. Ho la forte paura che
continuiamo a produrre parole nuove per
poi sporcarle con i nostri comportamenti e sostituirle con un'affannosa
ricerca di altre parole nuove che disorientano".
Enzo Iacopino |
LA MIA: A ben guardare,
tutti gli interessati siano prudenti
sul “parlare civile”, il che dimostra quanto siano coscienti dei pericoli che porterebbe un’estremizzazione del 'politicamente corretto' (cfr articolo): Pugliese afferma di non amare “la perifrasi” – sono perifrasi
“non vedente”, “diversamente abile”
ecc. – d’altro lato, è cosciente anche di quanto le parole possano essere
pesanti. Tuttavia non si possono eludere
certe considerazioni, e per questo Tosatti sa che questo lavoro verrà accolto
con diffidenza. Ma chi tocca il punto
dolente credo sia Enzo Iacopino: il problema non sono tanto le parole ma le
persone. Il significato di una parola
risiede unicamente nell’uso che se ne fa e dal contesto; se negro è offensivo, è perché noi lo
intendiamo così, lo usiamo così.
Abbiamo
un bel da fare, insomma, a “inventare parole nuove”;
se poi le insozziamo coi “nostri comportamenti”… non si va da nessuna parte. È giusto
riflettere sul peso che hanno le parole che usiamo, sul giusto modo di dire le
cose, sempre che si rimanga liberi di dire le cose a modo proprio.
Ma
viene prima l’uomo; è la persona che usa la lingua e le da
senso, è la persona che bisogna “rinnovare”, prima del linguaggio. Ma, certo, l’impresa
è di tutt’altra portata… proviamo con le parole.
Sono pienamente d'accordo, lo stesso si verifca con il termine extracomunitari: viene sempre utilizzato per gli immigrati e con accezione negativa. Difficilmente si trovano troveremo un titolo su un giornale che parla di americani o svizzeri come extracomunitari, con loro (extracomunitari come i marocchini...) i media sono sempre molto riguardosi
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