sabato 11 gennaio 2014

“GLI” : UNA PROVA DELLA PARITÀ DEI SESSI NELLA SOCIETÀ CHE SI RIFLETTE NELLA LINGUA?



Spesso si sentono delicate orecchie puriste lamentarsi per l’ormai diffusissimo uso generalizzato del “gli” per indicare non solo il dativo di lui (a lui), ma anche per il femminile “a lei”, che la tradizione vorrebbe che sia “le”, e il plurale (femminile e maschile) che la norma vuole che sia “loro” messo dopo il verbo. 

Gli ho dato un bacio vs. le ho dato un bacio vs ho dato loro un bacio: oggi “gli ho dato un bacio” può essere usato per indicare tutti e tre i casi.

Per il plurale soprattutto, è ormai una rarità sentire “loro” posposto, se non in ambiti molto controllati e tra persone di una certa cultura e di molta attenzione. Personalmente non ci vedo niente di male, anzi, mi pare decisamente più semplice il “gli”, per cui, niente da dire.

Vorrei invece riflettere sull’uso ambivalente, per non dire neutro, del “gli” che si sostituisce al “le”.
Se colleghiamo questo uso che ormai sembra essersi imposto nella maggioranza dei casi (anche se meno, mi pare, del “gli” plurale) con la “battaglia” per femminilizzare i lavori tradizionalmente maschili – e viceversa – la cosa si fa molto interessante.

Le ipotesi possibili sono due.


La prima: siamo talmente maschilisti da annullare il femminile, e quindi, se da un lato cominciamo a dire “ministra”, dall’altro, come per bilanciare, annulliamo il femminile nella grammatica, tanto che oggi si potrebbe dire, paradossalmente: “alla ministrA GLI ho detto che…”

Ma personalmente trovo più interessante la seconda ipotesi possibile. Prima di vedere quale sia, c’è però bisogno di una piccola premessa. Il fatto di segnalare sistematicamente entrambi i sessi, con l’ausilio della barra obliqua (ministro/a), si sta gradualmente sostituendo con un asterisco al posto della lettera finale (ministr*), che ha il merito di indicare, virtualmente, non solo il sesso biologico, ma anche la sessualità ed ogni caso particolare, anche i transessuali.

L’asterisco sembra quasi dire “il morfema del genere, mettetecelo voi, a piacere, quello in cui vi riconoscete di più”. Questo è il primo passo verso quella che è, oggi, la battaglia linguistica del femminismo: non più il segnalare la differenza, ma annullarla. Questa idea viene dalla famigerata “gender theory” secondo la quale non esistono generi sessuali, ma solo imposizioni sociali che “violentano” (è il caso di dirlo) la tendenza naturale dell’individuo. È una teoria che non condivido pienamente, ma non è questa la sede per parlarne. Con un po’ di spirito critico si potrebbe notare l’inquietante analogia con la “neolingua” orwelliana, descritta in 1984, lingua che per annullare dal pensiero delle persone ogni possibile opposizione, tende a unire in un’unica espressione i contrari (e oggi ne abbiamo un esempio lampante in “guerra umanitaria”). 


Ma non è quello che voglio dire adesso. Il fatto è questo: alla rivendicazione della propria differenza di donne, il femminismo ha sostituito un’altra idea, per la modificazione linguistica della società “patriarcale”: imporre il neutro. Questa battaglia è decisamente più avanzata nei paesi scandinavi e anglosassoni, specie in America, dove il femminismo radicale ha una potenza politica che da noi è inimmaginabile. La lingua inglese, in questo processo di “neutralizzazione” (nel senso di “rendere neutro”), è probabilmente avvantaggiata rispetto alle lingue latine, per il fatto di avere già il caso neutro: per loro, si tratta giusto di modificare qualche parola.

Ed è stato fatto: l’Enciclopedia Nazionale Svedese ha introdotto nel vocabolario il pronome “hen”, accanto, e in alternativa, al maschile “han” e al femminile “hon”. E così lo Stato di Washington ha approvato di recente una legge che traduce in modo neutro tutti i termini in cui è presente il sostantivo “man”, dato che potrebbero apparire discriminatori. (clicca qui per approfondire)

Ecco allora la seconda ipotesi: come si diceva nell’articolo precedente – critico nei confronti di certe “esagerazioni” linguistiche politicamente corrette – se la società cambia, cambia necessariamente anche la lingua. Allora, da un lato, l’evidente semplificazione implicita nell’usare una sola espressione; semplificazione che però porta anche, forse, a un impoverimento, e potrebbe causare la necessità di disambiguazione in qualche caso – cioè il dover dire “gli a lei”, caso teorico ed estremo, ma non impossibile.

Ma dall’altro lato, non si potrebbe vedere questo “gli” come un inizio di neutro? Come un indizio che, volenti o nolenti, i sessi stanno cominciando ad essere percepiti uguali, e che quindi questa ambivalenza sia una conseguenza, inconscia, della quasi del tutto conquistata uguaglianza?

Mi piace pensarlo.

Ant.Mar.

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