Spesso si sentono delicate
orecchie puriste lamentarsi per l’ormai diffusissimo
uso generalizzato del “gli” per indicare non solo il dativo di lui (a lui),
ma anche per il femminile “a lei”,
che la tradizione vorrebbe che sia “le”, e
il plurale (femminile e maschile) che la norma vuole che sia “loro” messo dopo
il verbo.
Gli ho dato un bacio vs. le
ho dato un bacio vs ho dato loro un
bacio: oggi “gli ho dato un bacio” può essere usato per indicare tutti e
tre i casi.
Per il plurale soprattutto, è ormai una rarità sentire “loro”
posposto, se non in ambiti molto controllati e tra persone di una certa cultura
e di molta attenzione. Personalmente non ci vedo niente di male, anzi, mi pare decisamente
più semplice il “gli”, per cui, niente da dire.
Vorrei invece riflettere sull’uso ambivalente, per
non dire neutro, del “gli” che si sostituisce al “le”.
Se colleghiamo questo uso che ormai sembra essersi imposto nella
maggioranza dei casi (anche se meno, mi pare, del “gli” plurale) con la “battaglia” per femminilizzare i
lavori tradizionalmente maschili – e viceversa – la cosa si fa molto interessante.
Le ipotesi possibili sono due.
La prima: siamo talmente
maschilisti da annullare il femminile, e quindi, se da un lato cominciamo a
dire “ministra”, dall’altro, come per
bilanciare, annulliamo il femminile nella grammatica, tanto che oggi si potrebbe dire, paradossalmente: “alla ministrA GLI ho
detto che…”
Ma personalmente trovo più interessante la seconda ipotesi
possibile. Prima di vedere quale sia, c’è però bisogno di una piccola premessa.
Il fatto di segnalare sistematicamente entrambi i sessi, con l’ausilio della barra obliqua (ministro/a), si sta gradualmente
sostituendo con un asterisco al
posto della lettera finale (ministr*), che ha il merito di indicare,
virtualmente, non solo il sesso biologico, ma anche la sessualità ed ogni caso
particolare, anche i transessuali.
L’asterisco sembra quasi dire “il
morfema del genere, mettetecelo voi, a piacere, quello in cui vi riconoscete di
più”. Questo è il primo passo verso quella che è, oggi, la battaglia
linguistica del femminismo: non più il
segnalare la differenza, ma annullarla. Questa idea viene dalla famigerata “gender theory” secondo la quale non
esistono generi sessuali, ma solo imposizioni sociali che “violentano” (è il
caso di dirlo) la tendenza naturale dell’individuo. È una teoria che non
condivido pienamente, ma non è questa la sede per parlarne. Con un po’ di
spirito critico si potrebbe notare l’inquietante
analogia con la “neolingua” orwelliana, descritta in 1984, lingua che per
annullare dal pensiero delle persone ogni possibile opposizione, tende a unire
in un’unica espressione i contrari (e oggi ne abbiamo un esempio lampante in “guerra
umanitaria”).
Ma non è quello che voglio dire
adesso. Il fatto è questo: alla rivendicazione della propria differenza di
donne, il femminismo ha sostituito un’altra
idea, per la modificazione linguistica della società “patriarcale”: imporre il neutro. Questa battaglia è
decisamente più avanzata nei paesi
scandinavi e anglosassoni, specie in America, dove il femminismo radicale
ha una potenza politica che da noi è inimmaginabile. La lingua inglese, in questo processo di “neutralizzazione” (nel
senso di “rendere neutro”), è probabilmente avvantaggiata rispetto alle lingue latine, per il fatto di avere
già il caso neutro: per loro, si tratta giusto di modificare qualche parola.
Ed è stato fatto: l’Enciclopedia Nazionale Svedese ha
introdotto nel vocabolario il pronome
“hen”, accanto, e in alternativa, al maschile “han” e al femminile “hon”. E
così lo Stato di Washington ha approvato di recente una legge che traduce in modo neutro tutti i
termini in cui è presente il sostantivo “man”, dato che potrebbero apparire
discriminatori. (clicca qui per approfondire)
Ecco allora la seconda ipotesi: come si diceva nell’articolo precedente – critico nei confronti di certe “esagerazioni” linguistiche politicamente
corrette – se la società cambia, cambia necessariamente anche la lingua. Allora,
da un lato, l’evidente semplificazione
implicita nell’usare una sola espressione; semplificazione che però porta anche, forse, a un impoverimento, e potrebbe causare
la necessità di disambiguazione in
qualche caso – cioè il dover dire “gli a
lei”, caso teorico ed estremo, ma non impossibile.
Ma dall’altro lato, non si potrebbe vedere questo “gli” come un inizio di neutro? Come un indizio che, volenti o
nolenti, i sessi stanno cominciando ad
essere percepiti uguali, e che quindi questa ambivalenza sia una conseguenza, inconscia, della quasi del
tutto conquistata uguaglianza?
Mi piace pensarlo.
Ant.Mar.
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