Il merito fondamentale del movimento femminista è stato, ed è, quello
di fare una impietosa critica ideologica
e culturale alle nostre società, atta a denunciarne (o a decostruire)
alcune costruzioni mentali ereditate da secoli (millenni) di sottomissione
sociale della donna rispetto all’uomo. E nessuno oserebbe negarlo, se non in
malafede.
Ma non credo si possa negare d’altronde
che talvolta, e specialmente negli ultimi decenni, questa critica ideologica ha preso delle pieghe estremiste, che,
certo, partono da idee incontestabilmente giuste ed esatte, ma approdano a
quelle che non esito chiamare esagerazioni.
Quello che qui ci interessa è la
lingua, campo in cui assistiamo a una di queste esagerazioni. Può una lingua essere maschilista? No. Una lingua può – e anche su questo ci
sarebbe da discutere – rispecchiare una certa cultura, e quindi rispecchiare il maschilismo di questa. E,
più in particolare, una lingua rispecchia il pensiero della persona particolare che la utilizza – persino i lapsus ci
dicono qualcosa sull’inconscio degli individui.
Per capirci: non sono le pistole a uccidere, ma le persone. Cristallino: una
lingua non è né maschilista né femminista, le persone lo sono. Se dico “tutti”
indicando un gruppo composto sia da uomini che da donne, non vuol dire che io
sia maschilista; tutt’al più vuol dire che sto parlando italiano.
Questo significa, ovviamente, che
se in italiano non esiste(va) il femminile di certi lavori (né il maschile di
altri, fatto spesso dimenticato), questo è perché la società italiana è sessista,
non la lingua italiana. E significa di conseguenza che se la società cambia, cambia anche la lingua, necessariamente. E sta
cambiando, nonostante certe resistenze. Infermiere/a, o ministro/a ormai
possiamo cominciare a considerarle, con una certa prudenza, parole entrate nel
lessico comune.
Tuttavia (cfr. articolo) l’importanza di tutto questo è innanzi
tutto politica, il che sia chiaro, conta molto. All’università di Lipsia,
in Germania, addirittura si è deciso di abbandonare il maschile “professore” e
chiamare tutti, anche gli uomini “professoresse”, operazione che ha un suo
perché, ma che suscita anche qualche “ma” (clicca qui per approfondire).
Allora, non negando affatto l’importanza
politica e sociale di questa evoluzione, vorrei però sollevare una questione sull’opportunità linguistica,
e lo faccio attraverso un articolo – peraltro molto interessante e decisamente condivisibile nel suo contenuto
– che mi è capitato di leggere. Ecco un passo, scelto a caso:
“Alcune persone, all’interno del movimento femminista, hanno
etichettato quell* di noi che sono coinvolt* nel movimento per i diritti
delle/i sex worker come “privilegiat*” e “prostitut* allegr*”, incapaci di
comprendere i disagi che le/gli altr* sex worker affrontano.”
Avete già capito cosa voglio dire. Abolire i generi e sostituirli
con *, o segnalarli sistematicamente entrambi grazie alla barra obliqua, sarà
pure doveroso – mi chiedo poi quanto – ma
non pare anche a voi che la scorrevolezza dello scritto ci rimette, e anche
parecchio?
E sull’odioso anglicismo, falso
tecnicismo, di “sex worker”, che di certo non aiuta, non mi pronuncio.
Anzi, si: che bisogno c’è di dire
sex worker? Semplice: prostituta, innanzi tutto, è uno di quei lavori che tradizionalmente sono declinati al solo
femminile – i motivi sono più che chiari. Ma se possiamo dire ministra, potremmo dire anche prostituto, non
vedo che differenza ci sia (esiste, tra l’altro, il francesismo “gigolò”). Ma c’è
anche un altro problema: prostituta è
tradizionalmente percepita come una parola di insulto, anche se non come “puttana”
e altre ancora peggiori. Per questo a “prostituta” si sostituì, poco tempo fa, “escort”…
espressione che lascia il tempo che trova.
Ma
anche questo è sostanzialmente un inganno: “prostituzione” significa,
secondo il Sabatini Coletti, “commercio di prestazioni sessuali”… insomma, un/a
prostituto/a è, né più né meno, un/a sex
worker. Punto. Però, dato il disprezzo e la paura che le società cattoliche
hanno verso il sesso, “prostituire” ha
assunto un secondo significato, figurativo: “svilimento dei valori ecc. che
vengono subordinati a beni materiali”. Come dire, che secondo la nostra società
il sesso è un valore “astratto”, come l’onestà o la bontà, che quindi non si
può vendere in cambio di vile denaro.
Un bel problema culturale, se militando per i sacrosanti diritti delle/dei
“sex worker” li/le definiamo “prostitute/i”. Inconsciamente un italofono
percepisce qualcosa di negativo, di maligno persino.
Ma, appunto, se vogliamo fare una rivoluzione culturale – e questo è l’obiettivo
del femminismo – a maggior ragione dovremmo usare con una nuova sfumatura, più
neutrale, la parola italiana. La presa di posizione in difesa dei diritti delle
e dei prostitut* risulterebbe io credo, molto più netta. Dal punto di vista
politco, ci si guadagnerebbe in forza del messaggio. Dal punto di vista
linguistico, ci si guadagnerebbe in scorrevolezza.
Ant.Mar.
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