giovedì 9 gennaio 2014

LA QUESTIONE DEL SEGNALARE ENTRAMBI I GENERI IN LINGUA, E 'PROSTITUTE/I'



Il merito fondamentale del movimento femminista è stato, ed è, quello di fare una impietosa critica ideologica e culturale alle nostre società, atta a denunciarne (o a decostruire) alcune costruzioni mentali ereditate da secoli (millenni) di sottomissione sociale della donna rispetto all’uomo. E nessuno oserebbe negarlo, se non in malafede. 

Ma non credo si possa negare d’altronde che talvolta, e specialmente negli ultimi decenni, questa critica ideologica ha preso delle pieghe estremiste, che, certo, partono da idee incontestabilmente giuste ed esatte, ma approdano a quelle che non esito chiamare esagerazioni. 

Quello che qui ci interessa è la lingua, campo in cui assistiamo a una di queste esagerazioni. Può una lingua essere maschilista? No. Una lingua può – e anche su questo ci sarebbe da discutere – rispecchiare una certa cultura, e quindi rispecchiare il maschilismo di questa. E, più in particolare, una lingua rispecchia il pensiero della persona particolare che la utilizza – persino i lapsus ci dicono qualcosa sull’inconscio degli individui. 

Per capirci: non sono le pistole a uccidere, ma le persone. Cristallino: una lingua non è né maschilista né femminista, le persone lo sono. Se dico “tutti” indicando un gruppo composto sia da uomini che da donne, non vuol dire che io sia maschilista; tutt’al più vuol dire che sto parlando italiano.

Questo significa, ovviamente, che se in italiano non esiste(va) il femminile di certi lavori (né il maschile di altri, fatto spesso dimenticato), questo è perché la società italiana è sessista, non la lingua italiana. E significa di conseguenza che se la società cambia, cambia anche la lingua, necessariamente. E sta cambiando, nonostante certe resistenze.  Infermiere/a, o ministro/a ormai possiamo cominciare a considerarle, con una certa prudenza, parole entrate nel lessico comune.

Tuttavia (cfr. articolo) l’importanza di tutto questo è innanzi tutto politica, il che sia chiaro, conta molto. All’università di Lipsia, in Germania, addirittura si è deciso di abbandonare il maschile “professore” e chiamare tutti, anche gli uomini “professoresse”, operazione che ha un suo perché, ma che suscita anche qualche “ma” (clicca qui per approfondire).


Allora, non negando affatto l’importanza politica e sociale di questa evoluzione, vorrei però sollevare una questione sull’opportunità linguistica, e lo faccio attraverso un articolo – peraltro molto interessante e decisamente condivisibile nel suo contenuto – che mi è capitato di leggere. Ecco un passo, scelto a caso:

“Alcune persone, all’interno del movimento femminista, hanno etichettato quell* di noi che sono coinvolt* nel movimento per i diritti delle/i sex worker come “privilegiat*” e “prostitut* allegr*”, incapaci di comprendere i disagi che le/gli altr* sex worker affrontano.”

Avete già capito cosa voglio dire. Abolire i generi e sostituirli con *, o segnalarli sistematicamente entrambi grazie alla barra obliqua, sarà pure doveroso – mi chiedo poi quanto – ma non pare anche a voi che la scorrevolezza dello scritto ci rimette, e anche parecchio?

E sull’odioso anglicismo, falso tecnicismo, di “sex worker”, che di certo non aiuta, non mi pronuncio.

Anzi, si: che bisogno c’è di dire sex worker? Semplice: prostituta, innanzi tutto, è uno di quei lavori che tradizionalmente sono declinati al solo femminile – i motivi sono più che chiari. Ma se possiamo dire ministra, potremmo dire anche prostituto, non vedo che differenza ci sia (esiste, tra l’altro, il francesismo “gigolò”). Ma c’è anche un altro problema: prostituta è tradizionalmente percepita come una parola di insulto, anche se non come “puttana” e altre ancora peggiori. Per questo a “prostituta” si sostituì, poco tempo fa, “escort”… espressione che lascia il tempo che trova.  

Ma anche questo è sostanzialmente un inganno: “prostituzione” significa, secondo il Sabatini Coletti, “commercio di prestazioni sessuali”… insomma, un/a prostituto/a è, né più né meno, un/a sex worker. Punto. Però, dato il disprezzo e la paura che le società cattoliche hanno verso il sesso, “prostituire” ha assunto un secondo significato, figurativo: “svilimento dei valori ecc. che vengono subordinati a beni materiali”. Come dire, che secondo la nostra società il sesso è un valore “astratto”, come l’onestà o la bontà, che quindi non si può vendere in cambio di vile denaro.

Un bel problema culturale, se militando per i sacrosanti diritti delle/dei “sex worker” li/le definiamo “prostitute/i”. Inconsciamente un italofono percepisce qualcosa di negativo, di maligno persino. 

Ma, appunto, se vogliamo fare una rivoluzione culturale – e questo è l’obiettivo del femminismo – a maggior ragione dovremmo usare con una nuova sfumatura, più neutrale, la parola italiana. La presa di posizione in difesa dei diritti delle e dei prostitut* risulterebbe io credo, molto più netta. Dal punto di vista politco, ci si guadagnerebbe in forza del messaggio. Dal punto di vista linguistico, ci si guadagnerebbe in scorrevolezza. 

Ant.Mar.

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