Foggia – Le frasi che fanno ormai parte del linguaggio
comune, sebbene grevi, non configurano un’ingiuria se non sono un
attacco all’onore altrui e sono proferite in un contesto che giustifica tale reazione.
Ci sono espressioni che, sebbene possano risultare pesanti e violente, non costituiscono un attacco all’onore altrui; peraltro, l’uso di un linguaggio più “disinvolto” e aggressivo rispetto al passato, sebbene censurabile sul piano del costume, è ormai accettato, se non sopportato, dalla maggioranza dei cittadini.
Ad affermarlo è stata recentemente la Corte di Cassazione che, per entrare nel merito di un diverbio tra due coinquilini, ha chiarito che l’espressione “Mi hai rotto i cogl…”, anche se proferita davanti a testimoni, non configura il reato di ingiuria. ( così Cass. sent. n. 19223/13 del 3.05.2013). L’espressione colorita in questione – evidenzia la Suprema Corte – equivale ormai, nel linguaggio comune, a “non infastidirmi” e, nel caso di specie, era stata dettata dalla necessità di rispondere alle petulanti insistenze dell’interlocutore (che chiedeva notizie circa la sorte di un oggetto).
Per aversi ingiuria è necessario verificare il contenuto delle frasi, il significato che le espressioni adoperate hanno assunto nel linguaggio comune e nelle concrete circostanze in cui sono dette. Non contano le (eventuali) intenzioni inespresse dell’agente né le sensazioni soggettive che la frase può aver innescato nel destinatario. Né si può configurare il reato di minaccia se la persona si è limitata a gesticolare veemente, a urlare e a dare in escandescenze: per aversi la minaccia è infatti necessario infatti un gesto esplicito e inequivocabile tale da intimorire l’interlocutore.
(A cura dell’avv. Eugenio Gargiulo, Fonte: statoquotidiano.it)
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