prof. Luca Serianni, autore de "L'ora d'italiano" |
Da anni l’insegnamento del latino è oggetto di interminabili e spesso stucchevoli diatribe, zeppe di visioni
stereotipe, per quanto l’oggetto stesso sia difficilmente tacciabile di
irrisorietà. Il latino a scuola, di solito, è messo dai suoi detrattori
sul banco degli imputati in modo improprio; ma spesso, d’altro canto, viene
difeso dai suoi sostenitori con argomenti deboli, scentrati. Serianni, dopo aver analizzato
lucidamente i pro e i contro, riconosce,
per alcuni tipi di istituti superiori, le
ragioni dello studio della lingua e della cultura latina, che, per il suo
significato storico, sono da considerare «una
componente importante del cittadino europeo occidentale che si voglia
considerare cólto» (p. 28).
Il problema vero è: che cosa deve
significare, oggi, l’insegnamento del latino in un liceo classico,
scientifico, linguistico? Certo non
quello che ancora oggi, per inerzia tradizionalistica, significa: una
materia il cui punto di arrivo è considerata la versione scritta,
destoricizzata e decontestualizzata; i
suoi fondamenti stanno in un grammaticalismo oltranzista, che immagina il latino come una lingua
viva, da apprendere nelle sue minute leggi di funzionamento. Invece, dice Serianni, «vorrei una scuola che desse più
importanza al rapporto tra lingua e cultura (non necessariamente
limitandosi alle testimonianza antiche e suggerendo almeno l’idea del molto di
latino antico che vive ancora in noi); e meno
importanza, per esempio, alla legge di Ruesch, che ho trovato esposta e
debitamente indicizzata in un manuale per le scuole: omaggio alla consecutio – o meglio a quella
dell’età aurea – forse vista come il centro propulsore della sintassi latina e,
chissà, dell’intelletto umano» (p. 36).
Postilla: meno latino aureo e meno resoconti bellici, più latino con agganci all’italiano (per esempio attraverso la semantica del latino cristiano), più autori che raccontano la vita, gli usi,
i costumi quotidiani dei nostri antenati, tanto vivaci e avvicinabili e insieme tanto esotici e culturalmente stimolanti per la sensibilità di un
giovane. Di fatto, «il brano di versione
[…] dovrebbe avvicinarsi al brano antologico previsto come lettura orale»
(p. 34).
Il tema d’italiano
Serianni nega che l’esercizio fondamentale per imparare a scrivere sia il canonico “tema”, perpetuato oggi come “traccia” da svolgere. Prima di tutto
perché “saper scrivere” non è riducibile
al dominio dei tradizionali livelli di competenza linguistica, dall’ortografia alla sintassi. Saper scrivere significa
anche saper strutturare in modo adeguato, coeso e soprattutto coerente, l’argomentazione. Il tema non sembra adatto a perseguire questo
obiettivo. Specialmente, dice Serianni, se all’insegnante e allo
studente (a un livello più basso, è chiaro) si chiede di fare il tuttologo, come accade quando vengono
impartite tracce su temi di cosiddetta “attualità”. Come potrà un quindicenne parlare in modo competente
dell’inquinamento e del surriscaldamento globale del clima? E «qual è la preparazione che un insegnante può
vantare su temi del genere? Quella, si suppone, di una qualsiasi persona cólta
che legga abitualmente i giornali. Forse però non basta […]» (p. 38).
Mentre esistono «test fattoriali o
discreti» che mirano a «testare e
affinare singole competenze» (pp. 48-50), un’«eccellente pratica»
che «dovrebbe essere abituale per i
ragazzi dai 12 ai 17 anni» (pp. 50-51) è
quella rappresentata dal riassunto, «pratica
salutare, in quanto misura la capacità
di capire un testo dato, di coglierne la salienza informativa, di renderlo in forma linguisticamente
efficace. Oltre a questo, l’abitudine a riassumere combatte la tendenza degli
studenti ad allungare il brodo» (p. 40). Leggere e capire ciò che è scritto
in un testo, cogliere i nuclei informativi principali, metterli in rilievo
subordinandovi le altre informazioni di corredo: la pratica del riassunto implica un severo e fruttuoso esercizio di
messa in opera di molteplici abilità finalizzate alla strutturazione del
pensiero e dell’argomentazione.
Quando si arriverà alla prova
scritta per l’esame di Stato, bisognerà comunque che le prove assegnate
siano «specifiche e realistiche» (p.
60), affinché il maturando non sia sommerso da una eccessiva «succulenta ricchezza di ingredienti» (p.
57) che potrebbe metterlo in difficoltà (pp. 55-60). Come sempre, i medici
facciano bene il loro mestiere: meglio prevenire che curare.
Leggi tutto l’articolo di Silverio Novelli su Treccani
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