L’ITANGLESE: Le parole inglesi importate nella lingua italiana senza essere
adattate, o adattate molto approssimativamente, come sappiamo sono moltissime, tanto che il fenomeno è stato
battezzato “itanglese” o "itangliano", come se si
trattasse di una nuova lingua, diversa dall’italiano. Questo è uno dei motivi
principali che mi hanno spinto a creare In Sua Favella. Basti pensare che sul
totale della parole di origine inglese nella nostra lingua, circa il 70% sono entrate nell’uso solo nel
ventesimo secolo, e questa tendenza diventa sempre più forte, sempre più, lasciatemelo dire,
colonizzante. Se per molti, troppi,
italiani questo non rappresenta un
problema, o rappresenta un problema relativo, sarà utile rispondere con dei
dati precisi; quelli dell’agenzia di
traduzioni Agostini Associati.
Per il terzo anno consecutivo,
infatti, la Agostini Associati ha condotto la sua indagine
sull’Itanglese nelle aziende operanti in Italia. La nuova rilevazione,
condotta su una base di documenti tradotti dall’italiano verso altre lingue
nell’anno 2011 contro una base equivalente del 2010, porta alla luce dati che
vanno al di là della peggiore delle ipotesi. Gli anglicismi nella nostra lingua, in un solo anno, sono cresciuti del
343%. Per essere chiari: è cresciuta di tanto la frequenza con cui sono utilizzati; oltre al fatto, secondario, che molte di queste parole sono nuovissime, appena appena entrate nel lessico. I primi dieci termini inglesi più utilizzati in azienda sono stati, in ordine decrescente: Spread, Smart, Like, Social, Tablet, Business,
Default, Brand, Screenshot, Device.
Tra
i termini preferiti quest’anno – afferma Ale Agostini, socio dell’agenzia di
traduzioni Agostini Associati – si
conferma per il terzo anno la crescita di parole associate alle nuove tecnologie informatiche (6 delle
prime 10), con la novità di parole associate ai fenomeni globali dell’economia (2 delle prime 10, tra cui non
poteva mancare il fatidico spread)
che hanno ampio risalto sui mezzi di comunicazione. Interessante rilevare che a
ridosso delle prime 10 posizioni, abbiamo rilevato parole ibride derivanti da radice anglosassone che sono state
riadattate in Itanglese, quali Sharare, Taggare, Forwardare, Performare,
Splittare, Schedulare ecc. (mi fermo qui per non fare rivoltare nella tomba
Dante e Oscar Wilde). Questa tendenza è legata a nuove “azioni digitali”
associate all’uso di strumenti informatici a sfondo sociale quali Facebook,
Twitter e Google+. Da un punto di vista
linguistico, mi domando se l’importazione diretta di termini inglesi
(esempio classico Tablet) sia da preferire o meno rispetto ad un ri-adattamento
in stile “Itanglese “ (esempio sherare, taggare ecc.) o se dovremmo fare come i francesi che traducono tutto e proibiscono
per legge l’uso indiscriminato di anglicismi. Forse ha ragione chi sostiene che il futuro della nostra lingua è
l’Itanglese.”
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NB: la stessa Agostini, azienda, preferisce l'inglese. |
L’INFEDELTÀ LINGUISTICA
DEGLI ITALIANI: “Guardando la classifica e l’insieme dei dati – continua Agostini – sembra che quando sono in azienda, gli italiani dimenticano la loro lingua e
importano termini inglesi senza tradurli. A mio parere questa importazione
selvaggia è anche una scelta di
convenienza che permette di risparmiare
tempo senza dovere pensare ad una possibile traduzione/parola corrispondente
in italiano. Agostini continua: “La
cosa divertente – io direi tragica – è
che alcuni traduttori automatici sembrano amare ed usare l’italiano più degli
italiani stessi: se ad esempio vado su Google traduttore e chiedo di tradurre
in italiano la frase “my tablet is a
smart device”, Google traduce tutto senza Itanglese”: la mia tavoletta è un dispositivo intelligente.
Vi invito ad andare a verificare, e a provare altre combinazioni.
È un concetto che
abbiamo cercato di affrontare tempo fa: gli italiani, di fatto, sono profondamente infedeli alla propria
lingua. I motivi sono vari, ed è difficile descriverli bene tutti. Innanzi tutto,
io credo, è importante riflettere sul fatto che siamo un paese con un’unica
lingua da relativamente poco, il che non
ci fa sentire, non ancora – ma forse ormai è tardi – la nostra lingua come
nostra, visceralmente nostra. Siamo in
un periodo della nostra storia linguistica abbastanza delicato: non ancora del tutto italiani, non più
davvero dialettali: questo ci rende, a mio avviso, particolarmente vulnerabili all’invasione. Ma attenzione:
non è una questione di purismo,
bensì di libertà e precisione del pensiero. È una questione di capacità di comunicazione, che non sia solo un
superficiale “etichettare” con nomi le cose; ma un legare dei concetti a delle
parole stratificate nella storia e nel significato; sfumature che solo un
madrelingua può cogliere davvero. Esprimersi in lingua straniera è come
guardare un film in bianco e nero, con
scarsa risoluzione; la lingua madre invece è un film con una fotografia netta, precisa… in 3d.
Inoltre, diciamocelo, siamo
davvero pigri, oltre che infedeli,
se troviamo che sherare sia più
comodo di condividere: non mi pare che
la traduzione richieda un grande sforzo, eppure dev’essere così per molti
italiani. Se a questo aggiungi il fatto
che l’inglese è oggi la lingua di prestigio per antonomasia– cioè potente:
veicolata dall’impero dominante – il problema è ben visibile.
Ma questo, e altri
motivi che sorvoliamo, sono adatti a giustificare il fenomeno fino a un certo
punto. La domanda da porsi, secondo me
è: quanti italiani conoscono l’inglese? Risposta: pochissimi, anzi, meno (cfr articolo). Come
si spiega allora che un popolo che non conosce la lingua, utilizzi in
continuazione e con l’andazzo preoccupante che abbiamo visto, parole di quella
lingua che gli è sconosciuta? Bisogna puntare
il dito, allora, contro quelli che quella lingua la conoscono: la classe
colta. Infatti, dati alla mano – ma anche senza dati è evidente – sono le
televisioni e i giornali a veicolare, senza motivo, queste parole. La colpa è di chi ha studiato, che usa
l’inglese come Don Abbondio usava il latinorum
per non far capire nulla a Renzo. La colpa è di chi snobba la propria lingua in
virtù di un erroneo internazionalismo; il macellaro sotto casa, parlo per
esperienza diretta, dice “compiùtere”; è
ignoranza? Di sicuro, ma è anche, secodo me, fedeltà al proprio sistema
linguistico, che accetta con molte difficoltà parole che finiscono con una
consonante. Diciamolo ancora: la colpa è
di chi ha studiato, di chi scrive sui giornali.
QUANTO È GRAVE LA
SITUAZIONE: è davvero così grave il tasso d’ingerenza dell’inglese nella stampa
nostrana? Se l’è chiesto il prof.
Massimo Arcangeli che ha coordinato un gruppo di giovani linguisti, in
compartecipazione con Agostini Associati, per rilevare l’utilizzo dell’Itanglese da parte dei principali quotidiani,
settimanali, giornali radio, telegiornali e spot tv italiani.
Su StopItanglese.it, “titolo volutamente provocatorio” dice
Massimo Arcangeli “per l’anglicissimo
stop“ è possibile trovare tutti gli aggiornamenti delle rilevazioni
condotte dal gruppo di lavoro. Il fenomeno dell’Itanglese, risulta, ha avuto una grande risonanza sulle
principali testate giornalistiche cartacee e in rete, come il Giornale,
l’Unità, il Corriere.it, Mark UP, MF Milano finanza, il Sole24re.com
oltre a interviste radiofoniche
(Radio24, GR Radio2, Rai Radio City, Radio Padova) e televisive (TG COM economia).
“Un’anglofilia forse inoffensiva
ma superflua e pretenziosa” afferma Massimo Arcangeli: sarà inoffensiva, ma io
invece mi sento offeso; di sicuro è superflua, perché l’italiano è una lingua
ricchissima; e ancora più certamente è pretenziosa, e questo si ricollega al
ceto colto, al latinorum. Questo ci ”induce a identificare i più grandi avversari dell’Italia con gli italiani stessi, – continua
Arcangeli – insinuando al contempo il
sospetto che dall’arma puntata contro la nostra lingua dai suoi nemici interni
partano solo gragnuole di salve, che i fuochi d’artificio dello stile animato
da un’anglomania civettuola siano
l’altra faccia del patetico
esibizionismo, verbale e non verbale, di una fenomenicità del nulla”. Speriamo sinceramente che abbia
ragione.
Questi studi hanno
portato fino al lancio del cosiddetto “codice
Itanglese”: una breve guida con l’obiettivo di aiutare tutti i comunicatori
a dosare in modo più equilibrato gli
anglicismi. Con la speranza che lo vadano a guardare, ogni tanto.
Ant.Mar.
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