È la lingua del mercato. Mi piace, non mi piace. Voglio,
non voglio. Compro, non compro. Stupendo, orrendo. Santo, delinquente. Italiano, straniero. Fascista, comunista.
Amico, nemico. Noi, loro. Semplificata, poche parole, scalpellate e puntute, da
tirarsi in testa all’occorrenza. Poche
idee. Scalpellate anche loro. Niente sfumature, solo quelle di grigio,
rosso o nero, all’occorrenza. Chi insegna conosce bene questa lingua. La trova
nei temi e nei saggi brevi, che dovrebbero argomentare e invece hanno la protervia
(superbia insolente, arroganza ostinata, sfrontata, petulante, scrive il
dizionario Treccani) di un oracolo a fine carriera. È fatta di frasi brevi,
assertive. Parole pochissime, come fendenti. Gonfie, retoriche, slogan. Si spiega con rigore che la
propria tesi va sostenuta con parole il più possibile chiare e condivise, che
la tesi contraria ci deve essere sempre presente, perché qualche elemento di
ragione ha da avere con sé e comunque si deve essere pronti a confutarla. Si ricorda che è un’arte il pensare, come
il parlare.
E invece. La lingua che la maggior parte di noi
conosce e usa quasi non ci permette di capire il necessario per il vivere
minuto: un modulo da compilare, le condizioni di conservazione di un farmaco. La bella storica battaglia contro la
schiavitù dell’analfabetismo si sta rovesciando in una silenziosa impensata
disabilità, analfabetismo funzionale, leggo ma non capisco. Una sconfitta
subdola.
Dar la colpa alla scuola che non insegna, ai libri di testo
sempre troppo difficili per i ragazzi eppure sempre più ammiccanti, nella
lingua, a una medietà senza qualità, accusare la scuola, contro cui si è
accanita la politica di un ventennio, è
una scorciatoia bugiarda che può prendere solo chi non sa cosa succede in
aula. Perché di sicuro la scuola con tutte le forze viaggia controvento. Ma le
parole colorate che fan festone nella aule delle elementari, le mille scritture
che si incontrano nei romanzi letti in classe e proposti a casa, e nelle
antologie e, ormai da tempo, le straordinarie esperienze di “scuola d’autore”
che coltivano la scrittura creativa dei ragazzi e delle ragazze, sono realtà
importantissime, ma rischino di restare “cose di scuola” se poi il parlare del
mondo intorno è raggelante. Si apprende
la lingua soprattutto attraverso l’esposizione a un bel parlare. Tv, giornali e web costruiscono il modello corrente di lingua, molto più della buona letteratura, e non solo perché si legge poco, e questo è male per
millemila ragioni, ma perché la lingua
sciatta del mercato dilaga nei libri anche, buona per tutti i generi,
giallo, fantasy, thriller o romanzo
d’amore: assertiva, paratattica e soprattutto facile, facile facile.
Nei notiziari ha la forma del virgolettato cubitale e
spesso scorretto prima di dare il contesto: «Il disastro poteva essere evitato»
(che è solo l’ipotesi di un gruppo di scienziati chissadove, ce lo ricordano
chissaquando). «Fra vent’anni la popolazione italiana sarà scomparsa e al suo
posto ci sarà un potpourri di
immigrati» (iperbole che è la proiezione di un’indagine, forse, e forse alla
fine del servizio ce lo faranno scoprire). E
si chiude la tv più arrabbiati, più spaventati e pochi sanno del pot-pourri
ci dicono le indagini, ma disastro, scomparsi e immigrati hanno la potenza
delle emozioni. Così si aiuta a
costruire una lingua povera povera, adatta a schierarsi e a fare il tifo, io di
qua e tu di là, ma non a capire, a capirsi.
Difficile ragionare di questo perché lo si fa dalla
sponda di chi le parole le coltiva per lavoro o per passione e a volte quel che
accade davvero gli arriva improvviso in forma di indagine internazionale che ci
colloca appena sopra il Nuevo Leòn (stato del Messico, a nord est, dice un buon
atlante). Una bufera sulla nostra sicumera (sussiego e presunzione, scrive il
dizionario Treccani) di sapere le cose proiettando tutto intorno a noi le
nostre convinzioni. Ma se la
consapevolezza arriva bisogna spaventarsi e resistere. E difendere la
scuola, e la bella lingua e letteratura. E i bambini. I bambini c’entrano, e
anche i ragazzi, visto che in questi giorni alla Children’s Book Fair di Bologna altre indagini ci hanno appena
detto che in realtà loro leggono, molto
molto più di noi adulti, e amano leggere. Esporli a una buona letteratura è un
atto necessario.
Poche parole vuol dire pochi pensieri. Anche per difendersi, difendere chi ha bisogno. E probabilmente non
capire il bugiardino di un farmaco «nuoce gravemente alla salute», anche se
l’inflazione noncurante dell’espressione ripetuta su tutti i canali ne abbassa
la pericolosità percepita. Ma di sicuro non capire un articolo di giornale o
una proposta di legge nuoce gravemente alla nostra vita civile, alla nostra
convivenza e alla nostra umana necessità di dirci e di capirci.
Articolo di Mariapia Veladiano, La Repubblica.
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