La lingua che
parliamo riflette molto da vicino la nostra cultura/società, e ne è una componente
fortemente simbolica: le parole non sono
semplici etichette, ma contribuiscono a costruire e rafforzare categorie
sociali e concetti. D’altro lato, tramite il processo inverso, ricostruire
la storia di una parola equivale, spesso, a rintracciare la storia del pensiero
di una civiltà. Per questo avere consapevolezza
della propria lingua è avere consapevolezza di se stessi; per questo un uso
della lingua rispettoso della parità
dei generi è di fondamentale importanza per un effettivo superamento delle disuguaglianze tra i sessi.
E per questo, oggi pomeriggio,
il Comitato per le Pari Opportunitàdell’Università di Trieste ha organizzato, un incontro dedicato a esplorare
le possibilità di un uso non
discriminatorio e non sessista della lingua italiana nelle pratiche
comunicative, tenendo conto di tutte le implicazioni (linguistiche,
lessicografiche, filosofiche e giuridiche); con una particolare attenzione ai
linguaggi istituzionali.
L’incontro, intitolato Il genere del linguaggio: per un uso non discriminatorio della lingua
italiana, vuole aprire una discussione sul modo in cui una riflessione
continua sulla lingua che passi attraverso la pratica d’uso può contribuire a
incrinare e mettere in questione
discriminazioni e marginalizzazioni, spesso non evidenziate, eppure sottintese.
Una donna, infatti, è un ministro o una
ministra? Una direttrice o un
direttore? Perché parliamo sempre di “uomini”
quando potremmo usare il termine più ampio “umanità”? E come fare per evitare di sentire o leggere frasi come “il sindaco è incinta”…? Non sono
discriminazioni “reali”, né volute: costituiscono
però il “sottobosco” della nostra lingua, e quindi del nostro modo di
essere/pensare.
Basterebbe forse un’attenzione minuta e costante, alla lingua che parliamo e scriviamo per esercitarci a riflettere su
questi problemi. Senza contare il fatto che tali questioni sono ormai
ampiamente entrate nell’uso e nella consapevolezza di diverse culture e di
diverse istituzioni internazionali (non ultima l’Unione Europea).
Per introdurre questi temi e iniziare a ragionare
sulle molteplici possibilità di azione che si possono aprire, sono stati/e invitati/e innanzitutto
studiosi e studiose di vari ambiti disciplinari che tracceranno il quadro
teorico e lo stato delle ricerche in corso in questo ambito. A partire da
linguiste come Cecilia Robustelli, dell’Accademia della Crusca, già
autrice di diverse pubblicazioni su questi argomenti e coordinatrice di
progetti e proposte concrete per diverse amministrazioni pubbliche, e da Fabiana Fusco, dell’Università di
Udine, esperta di lessicografia e
promotrice di tale tipo di discussione nell’Ateneo friulano. Gli interventi
prevedono inoltre il contributo di una filosofa
del linguaggio del calibro di Marina Sbisà,
che ha lavorato a lungo sulle modalità di costruzione degli stereotipi nel
linguaggio, anche in relazione al genere, e di un giurista, Gianfranco Giadrossi, che illustrerà come il problema
della parità di trattamento linguistico sia diventato ineludibile nell’ambito
delle norme di redazione di regole.
L’incontro si tiene in occasione della Cerimonia
conclusiva del corso Donne, Politica e
Istituzioni, attivato su iniziativa
e con il contributo del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza
del Consiglio dei Ministri – (a.a. 2011-2012), e dell’Inaugurazione del
Corso di Perfezionamento e Aggiornamento Professionale Donne, Politica e Istituzioni – Corso Avanzato (a.a. 2012-2013),
attivato con il contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia –
Servizio lavoro e pari opportunità.
L’iniziativa è giusta, e non è la prima riunione
sul tema ad essere organizzata in Italia; benché stavolta vi siano invitati/e
di indubbia eccellenza. Tuttavia ci si può domandare:
1: Quanto siamo influenzati dalla “moda”, cioè il nostro scimmiottare gli americani,
che su questi argomenti sono parecchio suscettibili? Voglio ricordare che le
donne italiane degli anni 60 non fecero un forte movimento femminista perché ritenevano di non essere tanto sottomesse
al sesso forte, quanto le loro sorelle americane (non mi piace usare i
punti esclamativi, ma stavolta ce ne vuole più di uno: !!!!!). (ovviamente le
donne del nord; a quelle del sud l’idea di femminismo non è ancora arrivata, o
non è stata compresa).
2: Senza nulla togliere alle giuste e buone
intenzioni di questi eruditi accademici, mi chiedo: a che serve? Non è che il discorso resterà chiuso nelle austere
aule degli atenei? A che serve parlare in modo politicamente corretto (concetto
che peraltro da noi non ha mai attecchito seriamente, se non – vedi punto 1 –
per “scimmiottare” la cultura anglosassone); quando la televisione umilia costantemente la Donna? Quanto sarà
comprensibile il discorso sul linguaggio di genere a un popolo reduce da vent’anni di machismo berlusconiano e da secoli di
cattolica reverenza alla verginità e alla maternità?
3: Come decidere fino a che punto è discriminazione, e non invece un "neutro"? La parola uomo, non potrebbe essere maschile se riferita a un maschio, e neutra se riferita all'umanità? non potrebbe essere semplicemente un inganno del linguaggio (chi conosce Wittgenstein mi capirà, gli altri non saranno tediati con certe cose)? Questo crea due possibili problemi: innanzi tutto certe derive ed esagerazioni del movimento femminista, che da noi non si sono ancora viste, ma che possono arrivare. Uno storico motto (se preferite slogan) delle femministe è "una donna senza uomo è come un pesce senza bicicletta": cioè alle donne gli uomini sono completamente inutili. Mi limito a dire: "che cazzata!" se non altro perché per gli uomini, le donne non sono affatto inutili. La parità di genere non può passare per l'odio di genere: questo è ovvio.
E poi, si rischia di voler imporre, e dico imporre, un uso linguistico, cosa che non è MAI stata possibile, se non con secoli di evoluzione, e comunque un'evoluzione "naturale" del linguaggio. Tempo fa le femministe francesi fecero una proposta un po' bizzarra (non troppo; meglio se fosse stata fatta con intenti provocatori, ma invece erano serissime): cambiare il genere degli aggettivi, in caso di una sola presenza femminile (cfr articolo). Come si può pensare, anche se per motivi "giusti", di imporre dall'alto un uso linguistico? Ci provò una persona sola in Italia: Mussolini. e i suoi intenti, anche se esagerati, partivano da un idea giusta, che oggi nessuno ha il coraggio di recuperare smussandone gli angoli. Ma anche dopo un ventennio di questa imposizione, finita la dittatura la "mescita" è tornata ad essere il "bar"; ecc. ecc.
Certo, per uscire da questa galleria culturale, il primo passo, necessario e indispensabile,
è una riflessione sulla lingua. Ma è difficile dire se è nato prima l’uovo o la gallina; è difficile dire quanto un
linguaggio di genere riesca a influenzare la nostra cultura; e quanto invece la
nostra cultura influenzi il linguaggio. Sono,
in realtà, entrambi, sia conseguenza che causa l’uno dell’altro.
Quindi bene
la riflessione sulla lingua; a cui soprattutto le donne dovrebbero interessarsi.
Ma probabilmente non basterà: bisognerebbe lavorare e riflettere su tutti i
campi della comunicazione, che oggi è praticamente sinonimo di cultura, almeno in quanto a capacità di influenzare usi e costumi.
Ant.Mar.
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