martedì 22 novembre 2011

"CI RIPRENDEREMO IL FUTURO!"

Una delle lamentele fondamentali dei giovani di tutto il mondo che in questi mesi stanno riempendo le piazze, a partire da Zuccotti Place, vicino Wall Street, è la mancanza di prospettive future. Uno dei motti degli indignati italiani è "Riprendiamoci il futuro!". Che sia vero o no, la sensazione che il futuro che aspetta i giovani sia peggiore (meno libero e insieme più povero) di quello a cui hanno potuto aspirare i loro genitori, è diffusissima. A Milano qualche tempo fa ho letto su un muro del centro questa bellissima frase: "non c'è più il futuro di una volta" (credo sia una citazione).


Riportando il discorso nei nostri confini nazionali, la parola "gerontocrazia" si sente sempre più spesso. Non sto qui a discutere le cause, il perchè e il per come di questa situazione. Solo, questi fatti mi stimolano una piccola riflessione (probabilmente tra l'altro non credo di essere il primo ad averla fatta): c'è un tempo verbale che nell'orale è praticamente sparito, e nello scritto comincia a vacillare; e non si tratta del congiuntivo, che in realtà è usato, e bene, da quasi tutti i parlanti, di qualsiasi classe sociale. È il futuro, guarda caso, che sta sparendo dalle nostre bocche. Non vediamo nulla di strano in una frase del tipo "domani vado in palestra"; o ancora "l'anno prossimo vado in Tibet". 

Potrebbe essere questo un caso di sorprendente corrispondenza tra un mutamento linguistico e un mutamento sociale? Se parliamo un eterno presente, ragioniamo in un eterno presente; siamo, insomma, nella condizione di un lavoratore precario, costretto a ragionare veramente a intervalli brevissimi, di 6 mesi, per procurarsi il companatico. Se così fosse, se cioè siamo come dei "precari della vita", avremmo un bel dire "riprendiamoci il futuro"; il futuro lo stiamo perdendo, nelle nostre teste innanzitutto, ed è questo uno degli aspetti più allarmanti: non ragioniamo più con una lungimiranza che superi l'anno. Chiedete a un ragazzo di 20 anni come si vede tra 20 anni, io credo che non saprà rispondere.

Un'ultimo spunto: c'è un caso in cui il futuro è ancora usato. Guarda un po': è il futuro "dubitativo"; in frasi del tipo "sarà questo il modello giusto?" "avrà ragione lui, ma io non lo capisco". Curioso che il futuro ci stia restando solo nel dubbio, mentre per esprimere ciò che faremo con certezza utilizziamo il presente.

Sarebbe interessante vedere se le altre lingue occidentali hanno caratteristiche simili. Posso dire che in francese ho l'impressioni che si usi molto di più il futuro "composto", traducibile con l'italiano "sto per", che non il futuro semplice. In un discorso orale francese si direbbe piuttosto "L'année prochaine je vais faire du ski" (l'anno prossimo "sto per" "vado a" fare sci) che "je ferais (farò) du ski".

Insomma, per riprenderci il futuro sarebbe utile, forse, dire "ci riprenderemo il futuro" piuttosto che "riprendiamoci". Solo che, appunto, un moderno quando legge "ci riprenderemo" pensa immediatamente "quando?", poiché vuole, è abituato, che le cose accadano subito. Ai nostri occhi appare dubbioso anche questo futuro, proiettato troppo in là per noi, intenti ad assorbire in tempo reale i miliardi di informazioni quotidiane e a dimenticarle alla mezzanotte, per ricominciare, senza passato e senza futuro, in un eterno presente. E internet è il veicolo principale di questo fenomeno psico-linguistico.

D'altra parte esistono lingue senza un tempo futuro, e non si può dire che a priori una lingua si impoverisca perdendo un tempo verbale (poichè esprimerebbe il futuro in altri modi). Qui si vuole solo stuzzicare le idee notando che, all'idea diffusa di "perdita" di futuro nella politica dell'occidente, si accompagna almeno negli italiani una perdita dell'espressione linguistica direttamente assegnata a questa funzione. Che il futuro sia espresso col presente, ma che sempre di futuro si tratta, è chiaro, ma non è il punto del discorso che ho voluto fare.

Ant.Mar.

venerdì 11 novembre 2011

SE, E SOTTOLINEO, IF.

Seguendo la puntata di ieri, giovedi 10 novembre 2011, del programma di Michele Santoro, Servizio Pubblico, ho fatto in tempo a segnarmi questo strafalcione, interessante perchè scaturito dalla bocca di chi dovrebbe avere una dominanza linguistica ineccepibile, lavorando proprio con le parole.

Si tratta del min. La Russa (guarda video al min. 1:50), che afferma, in un'intervista: "se noi facessimo una scelta diversa da quella della lega..." e, per sottolineare il "se", per dargli più autorità, afferma: "if, in inglese... se!". 

Mi chiedo, che razza di precisazione è, ricordarci come si introduce una frase ipotetica nella lingua inglese? La memoria va subito alla recente figuraccia del ministro che tentava di parlare inglese in un video che ha fatto il giro della rete. Forse qualche acutissimo consigliere d'immagine ha consigliato al ministro di buttare, quando possibile, qualche parola di inglese a caso, per far vedere che lui sa le lingue, dopotutto. L'effetto è invece, povero La Russa, opposto: tradurre a caso, in mezzo a un discorso italiano, una parola in inglese, fa più che altro l'effetto di un ignorante che osteggi cultura in modo distorto, dichiarando proprio così la propria ignoranza.

Ma io sono maligno, e mi piace vedere significati altri in qualunque cosa, per cui non ho finito. Il tono del ministro, nel caso in questione, era come per sottolineare e per essere più chiaro: la sensazione è che si usi l'inglese come, una volta, si usava l'italiano al posto del dialetto; per dare un certo peso alle parole. Se così fosse sarebbe, a mio avviso, gravissimo, poichè testimonierebbe dell'aver abbandonato la propria cultura (la lingua ne è lo specchio) e aver appaltato il proprio pensiero all'impero dominante, di cui siamo parte periferica. Questo si rispecchia nella sensazione che abbiamo tutti, di aver ceduto la nostra sovranità nazionale, il nostro diritto di decisione sul nostro territorio in quanto popolo, a un'anonimo ente astratto e sovranazionale, come la UE, o quasi sovrannaturale, come il mercato finanziario.

Si potrebbe obiettare che il ministro abbia utilizzato l'inglese, proprio col tono di essere più chiaro, come per voler dire, "dato che i miei interlocutori sembrano non capire l'italiano, uso l'inglese, che è compreso in tutto il mondo". Ma, a parte che a riguardare il video non sembra proprio il caso (invito, se interessa a qualcuno, a giudicare lui stesso il contesto e il modus), sarebbe, secondo me, concedere una finezza di pensiero troppo elevata per il personaggio in questione.

Ant.Mar.

lunedì 7 novembre 2011

È SBAGLIATO!


Da quando studio linguistica mi càpita sempre più spesso di sentirmi domandare se è giusto dire così o cosà; oppure mi si chiede a bruciapelo l'etimologia e la provenienza di qualche espressione. Quando rispondo, la maggior parte delle volte, che non bisogna avere un approccio troppo normalista con la lingua, che per sua stessa natura non sta mai ferma (l'italiano poi è cangiante anche geograficamente), la reazione è di sdegno.

Ma se tutti dicono bàule invece di baùle, (pare che il primo sia molto diffuso, io non l'ho mai sentito); oppure dicono Nuòro, invece di Nùoro (a Roma, ad esempio, tutti e anch'io, lo dicono sbagliato), sarà poi così grave? Ancora; per quanto mi riguarda riconosco, e non mi urtano, sia Frìuli (sbagliato), che Friùli (Forum Iulii); sarà poi così grave?

Per dirla meglio, si può considerare sbagliato ciò che non è percepito come errore da nessuno? Con questa logica sarebbe un errore dire gioco invece di giuoco; direi invece, se proprio sono costretto a parlare di errore, che è piuttosto il contrario. Mi è capitato personalmente di assistere al seguente dialogo, tra una ragazza italiana e una francese: l'italiana dice “a me mi piace la birra dolce”, e la ragazza francese risponde “a me mi piace di più la birra amara”. Immediatamente l'italiana la corregge: “non si dice a me mi”. Mi sono fatto un idea ben precisa di ciò che era successo: la ragazza italiana usa l'espressione che usano tutti (o quasi) senza accorgersene, e accetta, senza accorgersene, la stessa espressione dai parlanti italiani in quanto dà per scontato che questi sappiano la lingua quanto lei. È stata invece pronta ad individuare l'“errore” nella locutrice straniera.

Al di là delle stupide sottigliezze che mi chiedono amici e conoscenti ci sono diversi esempi di “errori” che sono ormai diventati la norma ma che ancora sono percepiti come errori, quando sono percepiti. Cioè: tutti sappiamo che “a me mi” non si dice, eppure tutti lo usiamo, almeno in discorsi orali e non sostenuti. Ciò che offende i puristi in quest'espressione è la ridondanza; così come in attimino (un attimo è già piccolo; inoltre un'espressione come ad esempio "fare un attimino qlc" sembra un obrobrio). Ma le fragili orecchie di questi critici non si scandalizzano davanti a piccolino, forse perché è più antico. Attimino in fondo è un espressione nuova, e tra l'altro intraducibile, cioè prettamente italiana, che sfrutta al meglio la capacità suffissale che ha la lingua italiana. 

Proprio contro l'espressione un attimino se la prendeva, fra l'altro Filippo La Porta in un articolo che ho trovato quest'estate in un vecchio numero de “L'espresso” (che ormai ho perduto). In una frase esprimeva benissimo il difetto che io vedo negli “intellettuali” italiani; diceva più o meno, a proposito di queste nuove espressioni: “questo è l'italiano povero della middle class...”. Metteva il corsivo, certo, ma io credo che avrebbe potuto anche dire classe media, senza corsivo, e senza alcun danno alla serietà e efficacia dello scritto.

È povero un italiano che grazie alla sua espressività riesce a far diventare un attimo ancora più piccolo, o un italiano che per puro sfoggio di (falsa) erudizione usa un inglese inutile?

Quali sono i motivi per cui si condannano all'unanimità certi usi? Cito quest'articolo dal sito del corriere della sera: “[...] per non parlare di certe storpiature, in diminutivo o in accrescitivo, che spesso ahimé si rivelano contagiose: da un attimino a straordinario a incredibile all’ormai vetusto favoloso, fino al ripugnante megagalattico, che poté forse funzionare in bocca a un comico, e per una sola volta.” 
Queste parole sono ripugnanti: può essere la “bellezza” un criterio di scelta? La scelta sta ai parlanti, all'uso; punto e basta. Difatti, ammette l'articolo stesso, questi usi sono contagiosi; certo che lo sono, sono usi della lingua italiana che attualmente sta evolvendosi. Se sono usati da tutti intorno a noi, anche noi li useremo. Se l'evoluzione va verso un impoverimento,  (cosa tutta da dimostrare)la colpa è solo della scuola e (quindi) della classe colta, o che dovrebbe esserlo.

Perché tendiamo ad essere così ostili verso le innovazioni interne, e con altrettanta convinzione accettiamo espressioni non italiane e non necessarie? Forse all'idea di “scarsa fedeltà” che ho accennato nell'articolo (si, nel senso di post) precedente, bisognerebbe aggiungere un'altra conseguenza: che non sentendo la nostra lingua inter(n)amente nostra, non ci sentiamo del tutto autorizzati a cambiarla.

Può sembrare bizzarra come teoria, ma penso ai francesi (popolo e lingua che ho potuto conoscere da vicino) che hanno una concezione normativa e “ferma” della lingua ancora più dura degli italiani, che, comunque sia, sono abituati a diversità regionali non da poco. Eppure i francesi, forse proprio per questa fermezza linguistica, accettano moltissime nuove formazioni interne, molte delle quali per supplire proprio a neologismi che altrimenti resterebbero inglesi. Per cui il problema in Italia mi sembra che non sia troppo il concepire la lingua come un'entità astratta, ferma e, per così dire, eterna, quanto nel non identificarsi del tutto con la propria lingua, non al punto da adattarla, così com'è (cioè con le sue strutture coerenti) alla realtà da descrivere, sempre nuova. Perciò si ricorre a cosiddetti prestiti di lusso (o, come dico io inutili) dalla lingua prestigiosa di turno (attualmente l'inglese).

Ho detto che solo l'uso può decretare la scelta di una parola; allora perché me la prendo con anglicismi, che magari saranno anche “inutili”, ma che sono, di fatto, utilizzati? Non certo perché sono brutti o ripugnanti; ma perché  gli anglicismi introducono nel sistema coerente della nostra lingua delle eccezioni morfologiche e grafiche innanzi tutto; in alcuni casi persino sintattiche.

Ma sopratutto io credo che si impoverisca la lingua, condannandone le nuove formazioni spontanee da un lato, mentre le si appioppano espressioni straniere dall'altro. Mi sembra un italiano impoverito una frase come “sale lo spread, rischio default”, rispetto a un sincero “andiamo un attimino al bar”. L'inglese inoltre, in italiano, diventa un falso tecnicismo, che mi ricorda da vicino il latino di don Abbondio di fronte alla sete di giustizia di Renzo.

Ant.Mar.

venerdì 4 novembre 2011

L'INFEDELTÀ DEGLI ITALIANI ALLA PROPRIA LINGUA


Quest'estate sono capitato a Bilbao, per trovare un amico che abita lì. Conosco altri suoi amici italiani trasferiti. A un certo punto uno di loro, con cui stavo chiacchierando, spara in mezzo al discorso in italiano una parola spagnola. Non ricordava come si dicesse in italiano. Ne nasce una discussione in cui lui ammette di aver “sostituito” l'italiano con lo spagnolo, che gli viene più immediato. So in prima persone che può succedere, avendo abitato un anno a Parigi: una volta mi è uscito “interiore” (alla francese) invece di “interno”. Eppure non ho usato direttamente la parola francese; l'ho adattata.

Uno dei fastidi più grandi che mi ha spinto ad aprire questo spazio è provocato proprio dal fatto che noi italiani usiamo in abbondanza forestierismi inutili. È una caratteristica dell'italiano, da sempre, essere una lingua piuttosto “spugnosa”, nel senso che assorbe molto dall'estero. Fino a qualche decennio fa era il francese; attualmente la lingua da cui prendiamo più parole è l'inglese. Non ci sarebbe nulla di male, in linea di principio; ad esempio “realizzare” nel senso di “capire” è un anglicismo; questo nuovo uso non fa altro che arricchire la lingua; o ancora l'espressione “lo stato dell'arte”, calco dall'inglese (peraltro non segnalato da nessun dizionario italiano). Ma usiamo una certa quantità di anglicismi di lusso, cioè non necessari; e alcuni si sono imposti, tipo week-end, che mi sembra aver praticamente soppiantato fine-settimana, che ne era il calco (era comunque un neologismo). L'Italia è l'unico paese (a parte, chiaramente, l'inghilterra) che chiama mouse il mouse, che usa computer, o file per il singolo documento ecc. ma queste sono parole necessarie; il fatto che non siano state adattate o tradotte è un altro paio di maniche, e in fondo può essere casuale: diciamo file, ma icona e documento. D'altra parte basti pensare che dal 1990 al 2000 è entrato nell'italiano circa un terzo degli anglicismi totali di tutta la storia della lingua. Il ritmo è vorticoso e non accenna a rallentare. Si arriva anche a delle formazioni mostruose, tipo scannare per “fare lo scanner” (accanto al più usato scannerizzare), scrollare nel senso di “eseguire lo scroll” (far scorrere la pagina); bannato, da banned, che sarebbe né più né meno che (venire) bandito.

Sarebbe interessante poter capire perché in Italia i forestierismi vengano così facilmente accettati e altrove no. Io un'idea ce l'avrei. L'unione linguistica italiana è cominciata negli anni '50, in buona parte grazie alla televisione, e non è ancora un processo finito. Voglio dire che qualunque italiano ancora parla una qualità “degradata” della lingua; se un giornale di Milano e uno di Palermo presenteranno una lingua scritta fortemente unitaria, lo stesso non si potrebbe dire di un parlante palermitano rispetto a uno milanese. Questo fa sì, io credo, che gli italiani abbiano una scarsa fedeltà verso la propria lingua. Siamo in una fase complicata della nostra storia: non più dialettali (almeno i più giovani) ma non ancora italiani. Ovviamente qui si parla solo di questioni di lingua, ma richiamare l'esistenza di un partito come la lega (volutamente con la minuscola) fa vedere bene quanto le questioni di lingua si colleghino profondamente con le questioni della società.Non sentiamo la nostra lingua come “nostra”, non abbastanza, non quanto inglesi e francesi , per esempio. La pubblicità, ad esempio, veicola nei nostri cervelli buona parte degli anglicismi che usiamo: gli italiani non hanno alcuna difficoltà ad accettare una parola inglese (o altro) e sostituirla a quella italiana.

È facile trovare degli esempi: oggi si chiama spa, almeno nella pubblicità, ciò che una volta erano le terme. Spa è una cittadina belga in cui appunto c'è un famoso stabilimento termale, e per antonomasia il nome indica, in francese e inglese, le terme. O ancora single, veicolato immagino da film e telefilm americani, che ha completamente sostituitola coppia celibe-nubileIn realtà "single" ha una connotazione diversa di celibe; ricordo più scapolo; cioè chi ha deciso felicemente di non sposarsi; e qui nasce un problema: manca un equivalente femminile più politicamente corretto di zitella. Cosa che credo che abbia contribuito parecchio nell'affermarsi di "single".

Fatto sta che è stato accettato dai parlanti, per cui niente si può fare. La domanda è perché i parlanti accettano, senza neanche accorgersene, parole che non si adattano al proprio sistema fonologico-prosodico (cioè ai suoni e al ritmo della lingua)? E che non se ne accorgano ne sono sicuro, perché se chiedo chiarimenti su anglicismi usati con totale naturalezza regolarmente mi sento dire “ma come, non lo sai?” come se non conoscessi una parola della MIA lingua. E se chiedo a qualcuno se sa come si dice, che ne so, “cameraman” in italiano, non me lo sa dire nessuno. Per quasi tutti non esiste la parola, in italiano. Eppure “operatore” era una parola parecchio utilizzata, negli anni d'oro del nostro cinema. Che ci sia un collegamento tra un'espressione artistica riuscita, come il neorealismo (che è prettamente italiano), e il fatto che allora non ci si atteggiava da “americani a Roma”? Forse i film italiani di oggi sono (la maggior parte) inguardabili perché vogliamo fare un cinema all'americana invece che all'italiana, cioè col cameraman, invece dell'operatore.

Certo, l'italiano pur essendo una lingua minore non sta correndo il rischio di scomparire. Non è questo il discorso che sto facendo: il fatto che gli italiani usino tante parole straniere non vuol dire assolutamente che imparino un'altra lingua. È proprio questo il problema: magari gli italiani sapessero bene l'inglese! Il problema è invece che non sappiamo bene l'inglese e tantomeno l'italiano, che sentiamo così poco nostro da adottare senza neanche accorgercene nemmeno parole straniere.

Il problema quindi si risolverebbe con la creazione di un istituto di protezione linguistica come in francia e spagna e germanie ecc...? Per dirla con Tullio De Mauro: “Non ne vedo l'utilità dal punto di vista dell'interesse generale del paese, se l'organismo è ben concepito. Se poi è mal pensato, vedo pericoli e danni”. L'accademia può fare ben poco se in Italia si trovano pubblicità interamente in inglese. Il problema non è mantenere una fantomatica “purezza” linguistica; ma fare in modo che gli italiani abbiano una capacità di espressione (quindi di pensiero) superiore a quella che hanno e cioè una conoscenza più profonda della propria lingua che vuol dire della propria cultura-identità. 

Ant.Mar. 

mercoledì 2 novembre 2011

UNA LINGUA INTERNAZIONALE: INGLESE vs ESPERANTO


L'esperanto è quella lingua creata a tavolino da Ludwik Lejzer Zamenhof, che sperava di farne lo strumento di comunicazione internazionale; in termine tecnico LAI, Lingua ausialiaria internazionale. Il problema della possibilità una lingua internazionale è lungamente trattato nella filosofia del linguaggio, in particolare nella seconda metà del 1800, in cui appunto nasce l'Esperanto. I principi che Zamenhof segue sono semplici: grammatica ridotta all'osso, assenza totale di anomalie e irregolarità (presenti in qualunque idioma naturale), lessico desunto da radici sia latine che germaniche che slave e altro ancora, in modo da rendere buona parte del vocabolario riconoscibile per i parlanti di almeno tutta Europa e del nord America. Inoltre le parole sono brevi, cioè facili da memorizzare, l'uso dei suffissi è massiccio, e questo permette una certa creatività. Vi sono gruppi che si battono per l'adozione dell'esperanto per i trattati internazionali, per l'insegnamento a scuola al posto dell'Inglese... insomma perché l'esperanto ricopra il ruolo che attualmente è dell'inglese, che fu del francese e prima ancora del latino. Esiste persino un certo ridottissimo numero di persone che sono di madrelingua esperanto (tra le 200 e le 2000 per Ethnologue), esiste una produzione culturale in questa lingua, siti, libri, anche Wikipedia ha la versione in esperanto.
incipit del vangelo secondo Giovanni in esperanto.
Zamenhof si vantava che le regole grammaticali di questa lingua, tutte, potevano essere imparate in 10 minuti. In effetti, leggendo l'inizio del vangelo di Giovanni (in principio era il verbo, e il verbo era con dio, e il verbo era dio...), la comprensibilità di questa lingua è sorprendente. Ma allora, perché nonostante gli indubbi vantaggi che comporta una creazione come l'esperanto è tuttora l'inglese ad essere usato come lingua internazionale? Perché l'inglese, bene o male, ha tutte le caratteristiche dell'esperanto, e per di più è già parlato da un numero impressionante di persone: basti pensare a USA India e Regno Unito. Innanzi tutto, la grammatica dell'inglese è davvero minima. Il sistema morfologico non prevede differenze particolari tra maschile e femminile. Per quanto riguarda l'etimologia, la lingua inglese presenta una ricchezza formidabile: anglo-sassone già ci dà un'idea di quanto si una lingua venuta fuori da una mescolanza di culture e idiomi. È vero che nell'inglese mancano quasi del tutto radici slave, presenti nell'esperanto; ma come l'esperanto se un latino riconosce una parte del vocabolario inglese, a un germanico risulterà familiare l'altra. Per questo, nonostante l'inglese sia a tutti gli effetti una lingua germanica, alcuni linguisti hanno coniato per questo idioma in particolare la definizione di lingua “semi-romanza”. Se io, che parlo italiano, riconosco senza difficoltà una parola come bottle, table; così un tedesco riconoscerà apple. L'effetto è quello voluto dall'esperanto. Inoltre l'inglese adotta ed ha adottato sempre una grande quantità di prestiti adattati e non; è praticamente formato solo di bisillabi e monosillabi ed ha la simpatica caratteristica delle parole onomatopeiche, come to yawn (sbadigliare). Quanto alla creatività dell'inglese non c'è neanche bisogno di dirlo; l'italiano non riesce a star dietro agli inglesi, per creazione di neologismi, senza una figura tipo D'annunzio. É anche vero che in questa lingua basta far precedere to a una parola perché questa diventi verbo subito declinabile (data la grammatica scarna).

In più l'inglese ha un vantaggio mostruoso sull'esperanto: è già parlato da metà della popolazione mondiale e studiato o conosciuto un minimo (anche solo per il fatto di possedere un computer) dall'altra metà. Basti pensare che un giapponese, sebbene nell'inglese non riconosca alcuna radice come propria, ha tuttavia ben 30'000 parole inglesi non adattate ormai entrate nel dizionario d'uso della lingua giapponese.

Ciononostante l'esperanto resta, teoricamente, migliore dell'inglese, in quanto non presenta alcuna irregolarità, e ha radici più ricche, che ne renderebbero facile la comprensione e l'apprendimento a una fetta più cospicua di popolazione. Sopratutto il rapporto scritto-orale è fedelissimo, mentre quello inglese è il più complesso tra le lingue occidentali.

La vera ragione per cui questa lingua non riesce ad imporsi (è comunque la più usata delle lingue artificiali) è proprio perché è artificiale. Questo non solo ne provoca il netto svantaggio che abbiamo già detto, di non essere madrelingua di (quasi) nessuno, ma in più la svincola da qualunque copertura politica, ideologico-culturale, persino militare. I motivi sono strettamente politici; e strettamente politici sono infatti i motivi dei gruppi di promozione dell'esperanto.
Prime dell'inglese si usava il francese; perché? Non c'è alcun motivo di semplificazione, vista la complessità grammaticale e morfologica e grafica del francese. I motivi erano strettamente politici; in quel periodo storico era la Francia l'impero dominante nel mondo. Poi fu l'Inghilterra e oggi sono gli USA. La dominazione non è solo militare, economica, giudiziaria; è anche, tristemente, culturale.

C'entra molto il “potere” della civiltà e della cultura che una lingua veicola, col “prestigio” di questa lingua. Non a caso ancora oggi i francesi continuano inutilmente a pretendere che sia il francese la lingua dei trattati; rimane comunque la lingua della giurisprudenza internazionale. Perché l'esperanto possa imporsi è necessario che tutti i paesi e tutte le lingua siano uguali una di fronte all'altra e che nessun paese abbia velleità di dominazione (anche solo culturale); cosa che non si è mai vista nella storia. Dietro l'esperanto non c'è nessun impero (ex)coloniale ricchissimo e (pre)potente; è chiaro che la causa è persa, ma d'altra parte non è che fosse una causa così fondamentale. In fondo, se devo imparare una lingua straniera, meglio che sia una lingua che porta su di sé traccia dell'evoluzione di una cultura, di una visione del reale; per cui va bene l'inglese, e magari domani il cinese, a patto che si resti coscienti della propria lingua madre originale.

Ant.Mar.

martedì 1 novembre 2011

L'SMS STYLE...

Qualche giorno fa ho trovato quest'immagine mentre giravo a caso per la rete, e me la sono messa da parte. Colgo l'occasione per parlare del famigerato "scritto dei messaggini", e del linguaggio dei cosiddetti "bimbiminKia". Mi è sembrato un caso interessante, questo cartello, che si vuole ironicamente superiore, per quanto sia doloroso constatare ancora una volta che il rapporto che abbiamo con la nostra lingua è davvero strano.

È la tendenza che io ho potuto personalmente riscontrare in tutti gli italiani: la condanna di abbreviazioni nello scritto del tipo cmq, o dell'odiatissima K, è unanime. Eppoi non ci accorgiamo nemmeno - e gli autori di questo annuncio funebre ne sono la prova, che condannano un uso che in fondo ha le sue giustificazioni pratiche, storiche, persino fonologiche, usando l'inglese in un testo italiano - che usiamo parole straniere inutilmente, forse proprio perchè non conosciamo la nostra lingua. Perchè in quest'annuncio si dice che la lingua italiana è stata uccisa dall'SMS style? Non suona doppiamente ironica questa condanna dello scritto giovanile, accorgendosi dell'insulto che si fa alla lingua italiana usandone un'altra come se le mancasse la parola?

È così terribile questo "stile messaggini"? Eppure le abbreviazioni si usano sin da quando l'uomo scrive. Su qualunque manoscritto si trovano segni diacritici che fanno risparmiare spazio e tempo. I monaci benedettini copiavano sotto dettatura, in gruppo; per perdere meno tempo possibile si faceva un uso abbondante delle abbreviazioni. Oggi la mancanza di spazio (di materia su cui scrivere) non esiste più; tuttavia la mancanza di tempo si è fatta terribilmente più pressante. Le abbreviazioni hanno una loro utilità indubbia quando si prendono appunti a lezione o per lavoro. Persino i disegnini, che in molti casi rappresentano proprio una forma comunicativa alternativa a quella linguistica (come la faccina sorridente), in fondo, se non hanno un valore puramente decorativo, possono essere un utile modo per abbreviare la spesa di energie nello scritto. Quello è lo scopo, da sempre. Stesso scopo ha la k, utilizzata sempre più spesso in ke, ki... insomma al posto del tradizionale ch-. È importante solo che si abbia coscienza che si sta usando un sistema abbreviativo, che il k non è (per il momento) accettata nella convenzione grafica dell'italiano, e sopratutto che cmq è un'abbreviazione.

Per il resto non ci sarebbe niente da condannare nell'uso delle abbreviazioni e della famigerata k, nel cui caso, poi, non solo si ha un risparmio di tempo spazio ed energie; ma si ha anche una trascrizione più semplice e foneticamente più esatta della pronuncia orale. Inutile specificare che una lingua è parlata o non è; la codificazione grafica arriva in un secondo momento, se arriva, ed è solo un passaggio di secondo livello, che dovrebbe sottostare alle leggi del parlato. Per questo oggi si scrive gioco e non più giuoco; ad esempio.

Ma dire style invece di stile è tutt'altra storia. Non ha utilità pratiche, non è parola necessaria (magari perchè definisce un oggetto nuovo, come mouse), non è espressione "più esatta"; insomma non è niente. Al massimo introduce una novità grafica, la Y, che per i detrattori della K dei "bimbominchia" dovrebbe essere altrettanto scandalosa. Per di più il rapporto scritto-orale è completamente sballato rispetto agli standard della lingua italiana, in cui questo cartello è scritto.

Cosa ci spinge a guardare schifati innovazioni spontanee delle nuove generazioni alle prese con le nuove tecnologie, e ad accettare, supini e incoscienti di farlo, anglicismi inutili?

Ant.Mar.

lunedì 31 ottobre 2011

PLOT!

Sono appena tornato dall'università, ho seguito una lezione di lingua e letteratura latina; in particolare il professore ci ha parlato del Satyricon di Petronio.
Per farla breve, a un certo punto dice, più o meno: "...per cui è la trama...", si ferma un attimo, balbetta un po' e poi, come per essere più chiaro, col tono inconfondibile di chi ha trovato una parola migliore: "... il PLOT!".

Mi giro verso la mia amica di corso e le chiedo: "il che?"; e lei, come si risponde a chi ha chiesto un'ovvietà, "il plot!". Ribadisco, "il che?", "ma come, non sai cos'è il plot?" e comincia a sorridere, "è la trama".

Rido anch'io e le dico, con orgoglio, che plot non l'ho mai sentito, che sembra il suono di un pezzo di cacca che cade nell'acqua del cesso;  ; non che le parole si scelgano in base alla loro "bellezza" (non solo); bensì in base alla loro comprensibilità e uso. L'uso di plot, a quanto mi risulta, non è affatto comune; la comprensibilità poi... Dico alla mia amica che allora poteva dire trama, il prof,: "eccheccazzo, di sicuro è meglio di plot..." e sottolineo muovendomi sulla sedia come uno che stacca lo stronzo appeso al proprio ano con un colpo di reni.

Sono ignorante io? Ma per quanto l'inglese sia fondamentale, io non solo non sono obbligato a conoscerlo, non ho neanche una scuola che me lo insegni adeguatamente. Tralaltro a che serve dire plot, se c'è l'apposita bella parolina italiana (di etimologia antichissima e nobilissima)? C'è che l'inglese fa più serio, più scientifico, più specialistico.

Questo è forse l'aspetto che più mi infastidisce dell'immotivata invasione degli anglicismi nei parlanti italiani: l'uso, che mi sembra stupido, proprio da parte di coloro -il professore di latino, poi, ha necessariamente una conoscenza assai profonda della lingua italiana- che più dovrebbero essere sensibili a queste intrusioni. Coloro che saprebbero, volendo, trovare il corrispettivo italiano di parole difficilmente traducibili.  

Quanto preferisco il macellaio sulla tiburtina che dice "er compiùtere", al professore di latino che dice "il plot"!

È l'accademia che, in Italia, veicola un numero mostruoso (perché inutile) di parole inglesi non adattate, e questo perché pare che dire plot sia più "esatto" che trama. Ma da sempre i gerghi specialistici, per la stragrande maggioranza dei termini, si limitano a risemantizzare e a circoscrivere in maniera univoca il senso una parola presa dal linguaggio comune. Oppure a creare nuovi composti, anche con creatività: cannocchiale, è una parola specialistica inventata da Galileo. Nuovo oggetto=nuova parola, ma mica creata dal nulla (come sembra che siano, nella bocca di un italiano, gli anglicismi). E in modo particolare la letteratura prende in prestito parole dalla strada e da tutte le altre discipline. Anche trama, è una parola specialistica; ovvero una parola comune risemantizzata; così come "intreccio". A che serve plot? Davvero fa "più serio"?

Per finire, la classe dominante acculturata è parte (purtroppo non coincide con) della classe dominante tutta, ed è opportuno prendere spunto per una riflessione che di sicuro tornerà spesso su questo blog. I politici e i giornalisti, che in televisione fanno sfoggio di un inglese degradato nelle loro frasi sgrammaticate, compiono un'azione assai più dannosa del povero prof di latino con cui me la sono presa oggi. Usando parole che sembrano specialistiche, ma che sarebbero facilmente traducibili in italiano, se non, addirittura, ne esiste il corrispettivo specialistico, creano una distanza ulteriore tra popolo e istituzioni.

Perchè il macellaio, prima di usare il giornale per incartare le bistecche, dovrebbe leggere e capire senza problemi parole come ad esempio default, escort, ecc... ? 

Ant.Mar.

domenica 30 ottobre 2011

I CRETINI INTELLIGENTI

Sul Venerdì distribuito da laRepubblica, del 28 ottobre 2011, trovo un articolo di Piero Melati a proposito del libretto "The Basics Laws of Human Stupidity", divertito saggio dell'economista Mario M. Cipolla, morto nel duemila, italiano di ottima intelligenza e quindi americano d'adozione. Significativo in questo senso che persino uno scritto che doveva restare ad uso privato per divertire con intelligenza pochi amici intimi, sia stato scritto in inglese. Mi era già capitato fra le mani questo saggio, tradotto, e leggendolo l'avevo trovato intelligente e simpatico, niente di più. Era chiaro l'intento tra il serio e il faceto dell'autore; lo definirei un "libretto da leggere in bagno", senza ironia, anzi nel senso più nobile.

Per farla breve, Cipolla individua i personaggi più pericolosi per l'umanità: gli "stupidi intelligenti". Espressione che io correggerei, se ho capito bene le pagine di Cipolla, in "stupidi acculturati" pur annullando l'ossimoro dell'autore. Coloro che hanno la cultura ma non l'intelligenza necessaria a saperla usare correttamente. L'antisemitismo non è invenzione hitleriana; Hitler lesse libri e trattati antisemiti (ebbe la cultura); ma non ebbe l'intelligenza di capirne la stupidità. Ad ogni modo, pur consigliando a chiunque di perdere 20 minuti (non di più) a leggere questo saggio di Cipolla, è l'articolo di Melati che mi interessa, prendo spunto da una frase.

Cito: "E il cretino intelligente ovviamente conosce l'inglese, pronunzia giunior il latino junior, dice network, family, cool, friendly, e il secchione sfigato è nerd ...".
Mi ha fatto riflettere; perchè da un po' di tempo mi ero accorto di un'influenza dell'inglese non solo, e non semplicemente, in parole nuove e necessarie che non vengono adattate, come tutto il lessico informatico o economico; ma un'incursione diretta nei discorsi quotidiani. L'uso del "cretino intelligente" di Melati è l'uso che si fa dell'inglese nei salotti di cultura. I dottorandi di storia delluniversità di Bologna organizzano ogni estate un incontro chiamato "Summer school". Nessuno più fa il tirocinio, ma lo stage (tralaltro pronunciato alla inglese, ma essendo un prestito dal francese che l'inglese ha adottato e adattato alla propria pronunzia). Gli aiuti statali o da parte dei genitori si chiamano welfare; avete mai provato al bar o per strada a chiedere cos'è il welfare? provateci, e potrete misurare la distanza tra popolo e istituzioni in questo paese. È una questione anche di libertà d'informazione e d'opinione l'uso di parole che siano riconoscibili per tutti.

L'uso inutile dell'inglese da parte della classe dominante (tra cui, sopratutto, giornalisti e politici) è davvero da stupidi; anche perchè spesso non solo è inutile ma pretende anche una qualche specificità maggiore del suo corrispettivo italiano. se volete farvi guardare con sufficienza e deridere provate a dire chiocciola invece di at a un libero professionista. provate a dire barra obliqua invece di slash; come minimo vi prendono per un pescatore siciliano del secolo scorso. forse è per questo che esiste anche un uso inutile dell'inglese di coloro che acculturati non lo sono tanto. E la cosa è tanto più grave in quanto non lo si fa in questi casi per apparire cosmopoliti o "uomini di mondo"; ma per apparire proprio "ignoranti", "coatti", come si dice a roma.

Ero in una trattoria romana con mio padre; al pagamento del conto il cameriere (circa 20 anni) saluta il vecchio dicendo "tènchiu doctorr"; con una pronuncia nemmeno italiana, proprio romanaccia. In macchina con un amico e la sua ragazza, fine della serata, accompagniamo prima lei. Una volta fermi sotto casa lei ci dice "allora guys, ci sentiamo tomorrow". Perché? Certo, è sempre fatto in tono scherzoso, come fosse un gioco di parole. Ma non lo è, e non fa sorridere. L'inglese gode dello statuto di lingua internazionale, e cioè la più prestigiosa. Ma "fa fico" o fa schifo, dire "ci vediamo tomorrow"?

Non si tratta di vietare l'uso dell'inglese, e di lasciare gli italiani chiusi in un provincialismo ottuso, anzi, si tratta proprio di conoscere davvero l'inglese; e di conoscere davvero l'italiano. Si creano questi aborti linguistici perché l'italiano medio non sa bene l'italiano e peggio ancora l'inglese; e non perché, come ad esempio in Danimarca, sappiamo benissimo l'inglese al punto da essere bilingui. Pochi giorni fa vedo un autobus, parcheggiato al lato del capolinea di Piazzale Clodio, a Roma, con su scritto "fuori service". Che cos'è? che cosa vuol dire? Secondo me vuol dire non conoscere l'italiano e ancor meno l'inglese. È un tentato ibrido, come "ci vediamo tomorrow", solo che fuori servizio in inglese si dice "out of order". C'è la possibilità che sia un ibrido col francese "hors service"; ma ho i miei forti dubbi: il francese non viene usato in tal modo, mentre l'inglese si, e in continuazione.

A cosa è dovuto quest'uso totalmente inutile e, almeno per me, un po' fastidioso, dell'inglese nei discorsi quotidiani? Le ragioni di un uso, nelle "accademie", che si vuole "specialistico" pur non essendo necessario, sono diverse dalle ragioni di un uso "ignorante" e ostentato di un ragazzino al parco?

Ant.Mar.

L'INGLESE È PIÙ AGILE DELL'ITALIANO (?)

La conclusione è sempre questa. Tutte le volte che mi è capitato di discutere con degli italiani sugli anglicismi inutili che usiamo, la frase magica, con cui si intende chiudere il discorso, il motivo fondamentale di questa abitudine, è: l'inglese è più svelto, più diretto e facile dell'italiano. Cioè? "Ticket" è più veloce di "biglietto", "zoom" è più agile di "ingrandimento". Provate a osservare l'espressione di schifo degli italiani alla parola "calcolatore", e come godono a dire compiuterr (perchè non diciamo mica "compjuta", secondo la pronuncia inglese). Ma l'inglese, si dice, non è solo più agile dell'italiano; è anche più spudorato nel creare neologismi. Il "mouse", davvero, non ce la sentiamo in Italia di chiamarlo "topo" (cosa che i francesi hanno fatto senza problemi: "souris"; e gli spagnoli, e i tedeschi e i portoghesi); e l'efficacia di "click" è insuperabile.

È vero, ma solo in parte, una piccola parte. Perché questo discorso, comune a chiunque, anche studenti di linguistica e professori, sottintende non solo una supposta superiorità di una lingua rispetto a un'altra; cosa che proprio linguisticamente non ha alcun senso; ma anche, cosa ben più grave, una concezione della propria lingua come di una cosa ferma e limitata, per cui si tende a affidare i neologismi ad altre lingue. Eppure l'italiano è particolarmente fornito di possibilità creative. Basti pensare all'enorme quantità di suffissi e prefissi. "Topo" per "mouse" non va bene, certo, ma già "topino" non sarebbe più accettabile? Il suffisso -ino è una fonte inesauribile di novità: basti pensare alla triade calza-calzino-calzone; tre parole di significato diverso, create grazie a dei suffissi. L'ultima tralaltro si differenzia semanticamente tra il plurale "calzoni" (pantaloni) e "calzone" (la pizza ripiegata). Tanto per fare un semplicissimo esempio su quanto le possibilità di una lingua di creare siano infinite. Se "topino" non convince, si potrebbe partire da un altro punto di vista, semplicemente. Non fare un calco, ma chiamarlo per esempio "manina", o "freccetta"; le possibilità sono infinite. Immagino quanti, a leggere queste traduzioni storcano il naso come davanti a della cacca fresca. Ma è solo questione di abitudine.

Ci sono anche quegli anglicismi che proprio non possono andare bene per un parlante italiano, che visibilmente non sono nè più veloci nè più facili. Nessuno mi potrà mai convincere che "desktop", con quel -kt-, è più agile di "scrivania" (traduzione proposta dal software Ubuntu, della Linux). E difatti viene pronunciato "desstopp", almeno a Roma; e se dici "scrivania" in questo senso, è assai probabile che tu non venga compreso. Oppure, anche qui, si potrebbe partire da un altro punto di vista e chiamarlo "sfondo" o "schermo" e via via secondo le idee. Ma quale piacere dà il pronunciare, con accento italianissimo, desktop!

Provate a spiegare a un francese, a uno spagnolo o a un inglese che computer in italiano si dice computer: rimangono stupefatti. Questi paesi non solo hanno la tendenza a tradurre le parole ed espressioni nuove, ma anche adattano alla propria pronuncia e sistema grafico quelle non tradotte. "Ordinateur" in Francia, "computador" in Spagna; si noti che entrambe hanno una sillaba in più di "computer" (calcolatore, è vero, ne avrebbe due), eppure non sentono il bisogno di una parola più agile.

Io credo che sia solo un'impressione, dovuta forse all'eterno complesso d'inferiorità degli italiani, la suddetta superiorità dell'inglese; e ho anche il sospetto che l'accettazione passiva sia dovuta anche a una pigrizia incrollabile della nostra classe dirigente e intellettuale.
Potremmo adattare la parola al nostro sistema; cosa che già viene fatta per strada. A Roma càpita di sentir dire "compiutere", su youtube, in un video che mi è capitato di vedere tempo fa, un parcheggiatore napoletano diceva "compiuto". È ignoranza? certamente, ma è anche prova di una fedeltà al proprio sistema linguistico che gli italiani acculturati non hanno e che rifiutano ostentatamente; fedeltà che provoca, nella velocità del parlato, la mimetizzazione e appianamento delle diversità. Provate a vedere come si scrive "whyskey" in spagnolo (io non ve lo dico). Ma in questi paesi, la scelta e l'adattamento delle parole nuove, è veicolata da apposite istituzioni. In Italia anche, ci furono istituzioni simili, poste a protezione della lingua nazionale; durante il ventennio fascista. Ecco il problema della penisola. Non appena si propone di filtrare, di adattare, di ragionare sulle parole straniere da importare, salta fuori il fascismo. Ma è chiaro che non si vuole costringere la gente con cognome non italico a modificare la propria carta d'identità; nè si vuole censurare parole di cui ovviamente si ha necessità, fosse solo per l'invenzione di un oggetto nuovo a cui dare un significante. Anzi, io sono per l'adozione di più parole possibili, sogno una lingua ricchissima di sinonimi, ognuno con la sua sfumatura particolare; ma una lingua coerente nel suo sistema. L'italiano ha il pregio di essere quasi del tutto fedele, nello scritto, alla riproduzione dell'orale; le uniche parole che non finiscono con vocale in italiano sono particelle come per, con, il... Voglio dire, non c'è niente di male in "click", è in effetti efficace, onomatopeico e per questo internazionale. Ma siamo davvero sicuri che sia più comodo ed efficace dire "con il mouse clicco sul link del desktop" piuttosto che "sul legame della scrivania" (o qualcosa del genere)?

È anche questione di comprendere ciò di cui si parla. Per uno spagnolo AIDS si dice SIDA: Sindrome da Immuno Deficenza Acquisita. DNA é ADN. Chiamare le cose col proprio nome: il presidente si circonda di escort? suona meno scandaloso di prostitute. L'Italia è a rischio default? fa meno paura di fallimento. Le parole nostre, che appartengono a noi e alla nostra lingua, le possiamo capire in profondità, non hanno solo una superficie, ma una storia e una serie di sfumature che solo un madrelingua può cogliere fino in fondo. Una parola non è solo un'etichetta; ma se questa parola non ci comunica una sua storia, come ad esempio "ticket", è solo una superficie, e ci rende più superficiali nella comunicazione, che è poi il pensiero.

Ant.Mar.