mercoledì 25 luglio 2012

da LA SETTIMANA ENIGMISTICA, SPIGOLATURE.

Leggendo la Settimana Enigmistica numero 4191, del 21 luglio 2012. 

Pagina delle "spigolature". 

Cito integralmente, sottolineando qualche passaggio, giusto per il piacere di farlo:

"Chi usa espressioni di stampo straniero come beauty case, footing o manicure dovrebbe sapere che nessun francese o inglese si sognerebbe mai di pronunciarle. Questi presunti prestiti alla lingua italiana sono infatti per lo più travisati o deformati: a Londra il bauletto con gli articoli da trucco è detto vanity case e la corsetta mattutina jogging; e chi a Parigi si tiene in ordine le unghie fa del manucure. Va poi precisato che all'estero certi interventi di chirurgia estetica non si chiamano affatto lifting, ma facelift, e che il luogo attrezzato per ospitare tende e roulotte non è il camping, ma il campsite. Ancora, se invitati a una serata elegante non ci si aspetti che sia d'obbligo lo smoking: gli inglesi quell'abito lo chiamano dinner jacket e gli americani tuxedo."

Si potrebbe allungare la lista, ma fa caldo. Ci limitiamo, ancora una volta, a segnalare come spesso in Italia questo amore, o sottomissione, per la cultura di volta in volta dominante, raggiunge (stavo per scrivere "rasenta", ma qui ci siamo dentro fino al collo) il ridicolo; specie dal punto di vista linguistico, che è uno degli aspetti a mio avviso più lampanti e preoccupanti per le profondità che tocca nell'animo di ognuno. 

Chi usa troppi termini inglesi è ridicolo, poiché lo fa spesso senza sapere l'inglese, quasi sempre senza sapere con esattezza il significato della parola che usa, in alcuni casi i termini stranieri non adattati ce li inventiamo noi, in casa, e in barba alle possibilità innovatrici dell'italiano; l'importante è non parlare la nostra lingua, così provinciale.

Ma se non parliamo italiano, e nemmeno inglese, o francese, che cosa vogliamo parlare? Che cosa possiamo pensare autonomamente e approfonditamente?

Ant.Mar.

lunedì 16 luglio 2012

TWITTER, LEGALE SOLO IN INGLESE

Su Twitter, al momento cruciale del percorso per iscriversi, quello in cui devi accettare le condizioni e leggere la "normativa di Twitter per la privacy", si legge una frase strana.

Ecco infatti cosa si legge per prima cosa; come comincia il testo delle condizioni da accettare: 

Per aiutare le persone di lingua italiana a capire meglio i Termini del Servizio di Twitter abbiamo tradotto questo documento in italiano, ma la versione inglese é la sola che ha valore legale.

Innanzi tutto non mi piace molto quell'aiutare, che dà alla frase un tono tra la pietà e il disprezzo; (questi imbecilli di italiani che vogliono capire cosa accettano, e che non sono in grado di leggere un testo giuridico lungo e in inglese).

In secondo luogo, visto che vogliono aiutarci a comprendere, che usino bene la lingua italiana: sarebbe preferibile scrivere (dire è altra cosa): "la sola che abbia valore legale".

Ma la cosa che mi colpisce è che, mi sembra di capire, la frase sottintende che io dovrei fidarmi della loro traduzione e del fatto che abbiano tradotto tutto il testo; quando avrebbero tutto l'interesse a nascondermi o a confondermi su certi punti; in particolare appunto la privacy e l'uso commerciale dei miei dati. 

Infatti io non mi fido granché; e allora cerco la versione con "valore legale", quella in inglese. E qui casca l'asino; non la trovo. Pare che "le persone di lingua italiana" non abbiano il diritto di leggere le condizioni nella loro versione originale. Con accento siciliano, lo definirei "un aiuto che non si può rifiutare".

Ant.Mar.

 

sabato 14 luglio 2012

LA "DEMOCRAZIA" DELLA RETE?


È di stamattina un articolo per il Corriere della Sera firmato Filippo la Porta, intitolato “Quando il lettore (e non il critico) certifica la qualità del libro”, che mi stimola una piccola riflessione sulla cosiddetta “rete”.

Il fatto accaduto è questo: sulla quarta di copertina del libro Rosa candida, di Audur Ava Olafsdottir, grande successo in Francia ed edito in Italia da Einaudi, appare non il giudizio di un critico letterario, né di un giornalista specializzato, ma l’entusiastico commento, anonimo, di un lettore (o lettrice) di Amazon.com

Ciò che distingue un lettore da un critico letterario non è solo la frequentazione di università e centri culturali e di persone a vario titolo “addette ai lavori”; un critico è in teoria munito di tutta una serie di conoscenze tecniche ben precise che gli permettono di “far funzionare” la macchina libro e di giudicarne il funzionamento. Strumenti veri e propri, come la chiave inglese per l’idraulico e la spatola per il muratore. Un lettore ti potrà dire se, secondo lui, un libro è bello o no. Un critico che si rispetti mette da parte, nei limiti del possibile, il “secondo me”; e utilizzando i propri strumenti, è in grado di costruire, proprio come un muratore,  un giudizio articolato e coerente. Non necessariamente “giusto” (categoria che in letteratura è meglio abbandonare); “coerente”. 

Ma i critici, letterari o d’arte che siano, rappresentano, e spesso hanno rappresentato nella storia, una vera e propria élite; sono, e sono stati, detentori di un certo “potere”, persino, di fatto, censorio. Potere che oggi non hanno più, tranne forse alcuni singoli; e a cui, forse coscientemente, la critica ha rinunciato; come gli scrittori hanno rinunciato al loro ruolo “regolatore” della lingua. Rinuncia probabilmente positiva grazie a un certa aria di democrazia linguistica e tematica che caratterizza la produzione culturale nella modernità. oppure, per dirla in modo più esatto, a un dominio dei “dotti” (cioè scrittori e critici) si è sostituito un dominio economico, per cui sono le case editrici a pesare maggiormente, ad esempio, nei giudizi del premio Strega. E un libro linguisticamente e tematicamente "libero" se non "libertino" vende di più. Ma questo non è un male.

Ecco allora che i fautori della “democrazia della rete” gioiscono di fronte al fatto compiuto. Ma qual è il ponderato giudizio che il nostro anonimo lettore espone? Si legge, nel suo commento, tra l’altro:

«Questo è un libro più grande della vita. Inizi a leggere e ti ritrovi in un uno stato di grazia. L'opposto dei libri che vuoi finire in fretta...».

Ma dov’è la libertà, dove la democrazia, in un commento anonimo, fatto magari da un perfetto idiota, da uno che come strumenti critici ha una lettura scolastica di Manzoni e tutta la collezione di Stephen King… in DVD? Per giudicare un libro bisogna leggerlo, questo è chiaro, ma è utile senz’altro consultare il giudizio critico di chi non solo l’ha letto, il libro, ma ha anche gli strumenti per farlo. Ci sono diversi critici, e diversi strumenti che possono dare risultati diversi. Ma, con un po’ di buona volontà, io-lettore aggiornato, posso sapere più o meno quali sono gli strumenti caratteristici di questo o di quel critico, e posso decidere se essere d’accordo o no, se condividere il punto di vista e/o il punto di arrivo. Cosa posso decidere di un commento anonimo che sostanzialmente mi dice, come potrebbe dirmi uno sconosciuto al bar, “questo libro mi è piaciuto”? Non posso decidere niente, l’informazione è nulla; e se l’informazione è nulla è nulla anche la mia capacità di costruirmi un’opinione; la democrazia stessa si annulla. (certo parliamo di libri, non di politica; ma per noi una cosa rispecchia l’altra). 

Lo stesso Beppe Grillo, convinto difensore e sostenitore della libertà di cui internet a suo parere si fa portatore, esprime spesso il seguente concetto: sulla rete se dici una falsità, grazie ai commenti e alle informazioni vere che gli utenti hanno a disposizione, vieni scoperto in un attimo. E se dici una falsità, venendo scoperto in quattro e quattr’otto, la tua reputazione va a farsi friggere. Ed è la reputazione che conta sulla rete, “uno vale uno”.

Ma se la cazzata me la dice un anonimo lettore su Amazon?; che poi, siamo sicuri che abbia letto il libro? Per quanto ne sappiamo potrebbe benissimo essere il figlio dell’autore, o più verosimilmente l’editore in persona, a tessere le lodi del libro. 

Comunque; se la cazzata me la dice un anonimo internauta, dov’è la sua reputazione? La stessa reputazione che i critici hanno, in quanto non anonimi, e che mi permette di decidere se essere d’accordo o no? quella reputazione non c’è.  Io posso anche leggere il libro incoraggiato dal suo commento entusiasta e niente affatto esaustivo, e trovarlo un libro indecente. Che faccio? Denuncio la cazzata dell’anonimo? Ma questi è, appunto, anonimo. E poi non ha detto una cazzata visto che ha espresso un giudizio personale.

Con internet il rischio è che si confonda il giudizio dell’uomo qualunque con quello dell’esperto; esperto non solo perché ha studiato (il che già aiuta), ma perché in quanto tale ha saputo costruirsi una reputazione. Insomma, il mio giudizio sul cuore di un malato ha meno valore del giudizio di un cardiologo. Bisogna averne coscienza, o la democrazia diventa caos (il che, sia chiaro, non vuol dire anarchia); bisogna rifiutare con forza l’idea che tutti possano fare tutto, non siamo tutti Leonardo Da Vinci. E con questo intendo far riferimento all’idea distruttiva di annullare il valore legale della laurea; quella di poter ( e voler) fare più lavori; facendoli tutti, necessariamente, male. 

Perché ciò che differenzia il critico, il politico (vero), il cardiologo, il sarto, da chi non lo è, non è solo l’aver studiato per farlo, ma è la pratica quotidiana e, per pochi, la fortuna di trovarsi un maestro in grado di insegnarci, di quel mestiere, gli aspetti che a scuola non ti insegnano.Cioè il frequentare abienti e persone "utili".

Se c’è chi vede la democrazia e la libertà nella rete, io vedo invece il pericolo della superficialità, e la pericolosa protezione che dà l’anonimato garantito a certi individui; di cui il lettore di Amazon fa parte, anche se, poverino, col suo giudizio non fa del male a nessuno. 

Ma quanto è dannoso chi parla di signoraggio bancario, di massoneria, di “nuovo ordine mondiale”, di fine del mondo, di alieni che ci controllano sin dalla notte dei tempi, senza alcuna cognizione di causa e, quel che conta di più, restando anonimo?

Ant.Mar.

(ti può interessare anche: questo articolo sul concetto di "rete")

venerdì 13 luglio 2012

SUL CONCETTO DI "RETE", E QUELLO DI "INTERNET"

Ogni tanto anche su questo diario, tra tante denunce accorate, si possono trovare pensieri calmi, e, dal nostro punto di vista, positivi.


Abbiamo ripetuto spesso negli articoli precedenti che la cosa che più ci indigna nell'uso di (certe) parole inglesi che noi italiani prendiamo in prestito senza avere il coraggio di adattarle, è proprio il fatto che essendo stranere non possono essere "interpretate" come un madrelingua sa fare. cioè, quella parola rimane una etichetta, non ha quei secoli di stratificazione culturale, nonchè di spostamento semantico, che un parlante avverte, anche inconsciamente, nella propria lingua.

Non è complicato da capire, ma lo è da spiegare.

Però, credo di aver fatto una piccola scoperta, che in realtà è sotto gli occhi di tutti. Credo di aver individuato un caso in cui si svolge nella pratica ciò che abbiamo sempre detto. Mi è capitato di accorgermene qualche tempo fa, ascoltando un predicozzo di Beppe Grillo sulla "rete".

Mi ha fatto riflettere il fatto che lui, fautore di internet, per spiegarne, con quel tono tra il mistico e il faceto, la portata "politica", anzi, filosofica; le possibilità che lui (e non solo lui) vede in internet, per tutta l'umanità, di fare un salto in avanti grazie allo scambio di idee, e di informazioni libero, veloce; e il fatto che tutti partecipino allo stesso modo, il presidente come lo spazzino, e tutto il resto; insomma, per spiegare la potenzialità sociale di internet, usi una parola italiana.

Ovviamente è chiaro il motivo. "Inter-net" di per sè esprime già tutto questo, forse anche meglio di "rete" (net, appunto) grazie al suffisso latino inter-. (per cui in italiano potrebbe essere, tralaltro molto simile all'inglese, "interrete"). Ma lo esprime per un madrelingua inglese. A un italiano, per legare un significato così ampio e così pieno di implicazioni (delle quali il buon Beppe elenca solo una parte, quella positiva) servirà una parola "stratificata", cioè riconoscibile nel suo significato più profondo, anche nella sua portata metaforica; servirà una parola italiana. 

Mi sembra una prova a nostro favore: "internet" rimane una mera etichetta a un nuovo oggetto che volenti o nolenti aveva bisogno di un nome; "rete" può farsi carico di significati molto più ampi, fino a farsi portatore di implicazioni filosofiche complesse.

Non solo, la parola italiana è anche molto più corta di quella inglese; quindi, è anche una prova che non sempre l'inglese supera l'italiano per immediatezza, altro luogo comune più volte denunciato.

Ecco allora un caso in cui si vede in effetti quello che voglio dire quando affermo che molti, se non tutti gli angicismi recenti, non adattati, rappresentano un problema di accesso libero all'informazione, quindi di democrazia, e sono interpretabili come misuratori di quanto il popolo italiano sia cosciente di sè, e capace di autodeterminazione. (pochino, direi, ma la colpa è della classe colta, non degli ignoranti)

Ant.Mar.

REVISIONE NON VUOL DIRE RESOCONTO

COME LA TRECCANI TRADUCE "SPENDING REVIEW"

Sono costretto a tornare per la terza volta in una settimana sulla nostra amatissima formula magica: "spending review". Cosa c'è ancora? Sono capitato sul sito dell’enciclopedia Treccani, in cui si esprime un giudizio a mio avviso opinabilissimo, e, per di più, facilmente opinabile. Quindi lo faccio, esprimo il mio disaccordo con la Treccani, e di riflesso con (quasi) tutta la classe colta di questo paese.

Facile è infatti dimostrare come sia proprio la classe colta, o che si crede tale, a essere la più convinta importatrice di anglismi inutili; e per di più usano la loro falsa erudizione per convincere il povero italiano medio che è meglio così, è più esatto. Eh si, per la Treccani è più esatto dire Spending Review. E perché? semplice:

"La locuzione inglese, anche nella versione originaria più estesa (comprehensive spending reviews ‘revisioni generali di spesa (dei singoli ministeri)’, contiene un qualche cosa di più, semanticamente, dell’italiano resoconto della spesa pubblica. Resoconto, a differenza di review, non esprime compiutamente, per esempio, l’idea congiunta del passare in rassegna e del rivedere le spese e revisionarne i criteri."
(leggi tutto l'articolo di Silverio Novelli)

Ho letto bene? Pulisco gli occhiali e rileggo. Ma purtroppo, sì, ho letto bene.

giovedì 12 luglio 2012

COME MARIO MONTI TRADUCE "SPENDING REVIEW"


REVISIONE NON VUOL DIRE RIDUZIONE

Il 5 luglio 2012, il "presidente" Mario Monti, ha detto, come di sfuggita, ciò che su questo spazio era già stato detto poco tempo fa a proposito della formuletta "spending review". Gli è stato fatto "autorevolente notare" (da Napolitano?) - dice Monti - che questo "è uno di quei concetti che possono quasi tutti, se non proprio tutti, agevolmente essere espressi nella lingua italiana e che quindi, non sempre, per capirli meglio è necessario tradurli in inglese".


Fa piacere, ma c'è qualcosa che non quadra, e non possiamo certo esimerci dal lamentarci e dal pretendere di più: Monti dice "non sempre"; come a dire che in questo caso, in effetti, strano a dirsi, è un'eccezione sicuramente, ma bisogna ammettere a malincuore che "spending review" funziona anche in quella lingua così poco creativa e così poco fornita di possibilità denotative che è l'italiano.

PROBLEMA DI DEMOCRAZIA Ma fermiamoci al sarcasmo, su questo punto; poiché il punto fondamentale che ci interessa di più è il fatto, più volte denunciato su questo spazio, che con questo uso di termini inglesi si crea un vero problema di democrazia, ovvero si lede il diritto di informazione (di comprensione dell'informazione) che è alla base della democrazia. Non sono dettagli, non dal punto di vista politico, il fatto che lo stato comunichi nella lingua dei cittadini con i cittadini. Poi, dal punto di vista linguistico, sorgono diverse perplessità sull'uso spropositato dell'inglese in questo paese (in questa lingua), ed è interessante interrogarsi sui motivi di un uso tanto diffuso.

Ma in questo articolo ci interessa, come in molti altri qui pubblicati, il legame tra politica-società e lingua-cultura: Monti si guarda bene dal proporre chiaramente un equivalente italiano, ma ne propone due: "revisione o riduzione delle spese pubbliche". Perché? Noi che siamo maligni pensiamo che sia perché, se lo avesse fatto chiaramente, in modo univoco, a partire dal giorno dopo tutti i cittadini avrebbero potuto usare il corrispondente italiano, ovvero, fatemelo dire: REVISIONE DELLA SPESA (o delle spese). 

Il cosiddetto Rigor Montis propone però anche la traduzione alternativa: "riduzione" delle spese. Ma attenzione! "Revisione" non vuol dire "riduzione"; vuol dire piuttosto "rendere più efficiente"; si "rivedono", appunto, scelte seguite fino a qui. Ecco che appena prova a spiegarcelo in italiano vediamo subito l'inghippo. "Revisione" vuol dire meno sprechi, non meno risorse, come suggerisce la "riduzione" di spese pubbliche proposta dal nostro bocconiano. Mi pare evidente, tanto che non mi dilungo sulla questione; e mi pare tanto più evidente che continueranno a usare l'inglese, i giornali i politici, il governo, tutta la classe dominante della nostra società. Chi potrà accorgersene e quindi lamentarsi se il governo, usando la parola "review" farà invece una "riduzione"? Molti meno di quanti potrebbero capire che "revisione" poco o niente ha a che vedere con "riduzione".

A me pare proprio che "revisione delle spese" non suoni poi così male, anzi, è direttamente coprensibile e pronunciabile e leggibile. Dicendolo in italiano, già potremmo cominciare con maggiore cognizione di causa a interessarci, partecipare, incazzarci. Quello che rappresenta "Spending Review" è un limite imposto alla nostra partecipazione.

Ant.Mar.


mercoledì 11 luglio 2012

BYOBLU E LE CALCULATEUR

"60 milioni di persone, per di più gli eredi diretti di quel latino che costituisce metà del vocabolario di mezza Europa e che ha insegnato a tutti a parlare, non possono essere lasciati ai margini, come se dovessero solo pagare, possibilmente senza capire niente."

Così conclude, giustamente arrabbiato, il famoso giornalista della rete (o blogger, se così vi piace) Claudio Messora (byoblu) un articolo del 6 giugno 2012 intitolato "ma l'italiano mai?". La rabbia del nostro bravissimo informatore libero è dovuta a al fatto che il signor Mario Draghi, direttore della Bce, abbia tenuto una conferenza stampa per parlare di temi importantissimi per tutti i cittadini europei e in particolare per i cittadini del sud (italiani spagnoli portoghesi greci). La conferenza, giustamente, è stata tenuta in inglese, lingua accettata pacificamente come lingua internazionale in tutto il mondo. Ma c'erano anche delle traduzioni simultanee, guarda caso, però, non in tutte le lingue ufficiali dell'unione, ma solo in francese e tedesco. I motivi sono chiari, ne parlo in un altro articolo: i francesi hanno una potenza militare non indifferente, la Germania è la locomotiva economica dell'unione. Altri motivi, come l'effettiva diffusione del francese nel mondo, sono ai miei occhi puro "politicamente corretto", e se contano, contano molto molto poco.

In un video del giorno dopo, in cui Messora ci spiega in modo più approfondito e semplice i contenuti della conferenza tenuta da Draghi, (temi ben più importanti di quelli che qui ci interessano) ribadisce la propria invettiva, (a partire dal min. 4,09) assolutamente condivisibile, con parole che cito testualmente:

"Ora mi dovete spiegare perchè i francesi e i tedeschi sono esonerati dal dovere di conoscere l'inglese per capire quello che sta dicendo Draghi e per capire quello che gli chiedono gli interlocutori, mentre gli italiani sono costretti. Che poi paradossalmente sono i più ignoranti...
Nei confronti dei francesi non tanto perché sono ultra-iper-nazionalisti (non a caso sono loro che si sono opposti ai trattati internazionali alla costituzione europea). Per loro il computer non esiste, esiste "e calculateur", capito?"

Al di là del fatto che sul "nazionalismo" dei francesi ci sarebbe da discutere, ma non è questo il luogo nè sono io la persona per farlo (io direi piuttosto "statalismo", ma questo non riguarda il singolo individuo francese quanto la formazione storica dello stato e della nazione Francia... ma vabbè); e al di là del fatto, più vicino al nostro punto di vista, che in realtà esiste "l'ordinateur" e non il "calculateur", errore comunque interessante perchè "calcolatore" sarebbe il computer in italiano!; al di là di questi dettagli ci sono delle inesattezze che la dicono lunga sul rapporto che hanno gli italiani con la propria lingua (e con la Francia, ma qui non ci interessa).

punto 1: Messora afferma che (forse) i francesi sono altrettanto ignoranti degli italiani in quanto a conoscenza delle lingua straniere, in particolare l'inglese. I francesi sono invece tra i più profondi conoscitori in Europa delle lingue straniere, sia perché la scuola insegna obbligatoriamente 2 lingue straniere, (ovvero l'inglese più una lingua europea a scelta dello studente) e non 1 come in Italia; sia perchè a loro storia e cultura, fondata sull'idea illuminista del "cosmopolitismo", è molto più attenta, interessata e pronta ad assorbire elementi stranieri (dal cibo, alle parole, alla ricerca, agli individui umani) di quanto non facciano gli italiani. Certo, il fatto che la Francia sia stata una potenza coloniale enorme ha contribuito parecchio. La presenza di persone straniere ha portato da un lato una grande presenza di centri culturali, permessi dallo Stato, e poi di vere e proprie organizzazioni di ricercatori (sovvenzionate dallo Stato) su culture extraeuropee di livello tale da attirare a Parigi studenti che in quei paesi (in quelle culture) ci sono nati! Ovviamente, quindi, per uno studente straniero, extraeuropeo, è facile accedere agli studi e alle piccole agevolazioni a cui hai diritto come ringraziamento di portare la tua intelligenza alla francia invece che agli altri, e se è bravo viene persino corteggiato dall'università proprio per questo motivo. (e stessa cosa gli americani, e i tedeschi, insomma tutti tranne noi, che i negri non li vogliamo) è questo il "nazionalismo" dei francesi. Come si comporta la scuola e l'università (e lo stato) italiane con gli studenti stranieri, o considerati tali palesemente per motivi razziali? Da qui a tutti gli apporti che questa "massa di negri" come direbbero molti in Italia, ha portato alla cultura, alla cucina, alla lingua, all'arte, alla letteratura, al cinema francese è facile arrivare. In italia siamo meno aperti persino sul piano culinario! (e io sono un convinto sostenitore delle tradizioni locali e regionali in cucina). Noi abbiamo difficoltà persino ad accettare Balotelli in nazionale!

punto 2: subito dopo Messora afferma che gli europei del nord (olandesi danesi ecc), al contrario di francesi (perchè "ultra-iper-nazionalisti") e italiani (perché ignoranti) guardano i film in lingua originale tanto conoscono bene l'inglese. Viene da ridere. Sono gli italiani gli unici in Europa, e forse in tutto l'occidente, a doppiare tutti i film al cinema; vi sono ragioni storiche e sociali ben precise e la pratica del doppiaggio da noi ha raggiunto livelli di professionalità notevolissimi. Ma è una pratica che nel resto del mondo, specie per i film un po' più seri, è vista come un inutile intervento che rovina il "sapore" originale dell'opera. Per cui un film come "spider-man 2" è doppiato anche in Olanda e in Danimarca, come in Francia e in Italia. Mentre un film più serio, (intendiamoci: "giudicato più serio dalla critica cinematografica comunemente più seguita") anche non in inglese, ma in italiano, o in sloveno, è doppiato SOLO nei cinema italiani. Tutto il mondo ha visto, ad esempio, in versione originale sottotitolata "la vita è bella" di Benigni; anche se era in italiano.

punto 3: Si dice che i francesi invece di dire computer dicono "ordinateur" come se fossero gli unici tanto nazionalisti da non poter accettare un neologismo senza tradurlo e adattarlo. è così? Assolutamente no!!! è l'esatto contrario: sono ancora una volta gli italiani gli unici in europa ad accettare senza nessun problema parole inglesi senza tradurle, senza adattarle. Gli spagnoli e i portoghesi dicono "computador"; i tedeschi "rechner" (e come variante di radice latina, "computer"), i greci "upologhisté" (non so usare le lettere greche sulla tastiera, scusate), e vi invito a verificare le altre lingue europee. Se non siamo gli unici siamo in netta minoranza, e comunque gli unici del mediterraneo.

Insomma, tutto quello che dice Messora nel video e nell'articolo che abbiamo qui processato è condivisibile dal punto di vista politico; è gravissimo in effetti che non sia disponibile la traduzione almeno per quei 17 paesi direttamente interessati dal contenuto di quel video (che come sottolinea ancora il nostro giornalista, non si può scaricare, altro elemento importante), e lo ringraziamo per averci dato ancora prova di come la democrazia in europa sta soffocando. Dal nostro punto di vista "laterale" dobbiamo però segnalare lo strano rapporto che gli italiani hanno con l'italiano, prendendo spunto dalle inesattezze in cui il nostro, pur essendo visibilmente munito di una buona cultura, è incappato così come tutti, o quasi, i nostri concittadini.

Morale della favola: siamo NOI quelli strani, non i francesi! 

Ant.Mar.

martedì 10 luglio 2012

LA MIA TRISTEZZA "MECCIA" CON CERTI NEOLOGISMI

Sul blog "salvalngua" del linguista Massimo Persotti trovo un articolo che parla del termine "mecciare", molto usato dai sistemisti informatici, che lo scriverebbero Matchare, e che vuol dire nè più nè meno "abbinare" o "far combaciare".

Addolorato, cerco un po' su google delucidazioni e trovo una paginetta interessante; ma, per me, niente affatto divertente. Il "dizionarietto semiserio dei neologismi informatici", dove insieme a mecciare troviamo tutta una serie di inutilità che pare siano pronunciate regolarmente dagli informatici, e che pare cominci a sentirsi fuori dall'ambito specialistico. Inutile dire che se queste persone trovano più facile dire ghettare (da to get) invece di prendere, c'è un vero problema, la natura del quale è difficile da dire in poche righe, ma anche in tante.

A me, sinceramente, dispiace tanto che ci siano italiani linguisticamente, e quindi culturalmente e quindi intellettualmente, così sottomessi da essere incapaci di dire sovrapporre invece di overlappare; aplodare invece di caricare, e tutti gli altri mostri grafico-fonetico-morfologici che il dizionarietto riporta. Consiglio di andare a buttarci un occhio.

Mi dispiace perché a mio avviso questa situazione va di pari passo, anzi è proprio la stessa identica condizione per cui i muri di Pompei crollano quasi quotidianaente, e per cui quotidianamente mangiamo il nostro territorio con opere fatiscenti quanto inutili e offensive alla nostra storia-cultura-lingua. Va di pari passo con l'ignoranza ostentata della classe dirigente di questo paese. e ancora più in là, si aggancia con la regola numero 7 della lista stilata dal linguista Chomsky, e mi fa ripensare a una pubblicità non tanto vecchia che ci diceva (peraltro in inglese pur essendo rivolta a italiani): BE STUPID. E anora altre cose mi vengono in mente, ma mi fermo.

Mi limito, inascoltato, a esprimere il mio disappunto. Vox clamantis in deserto; sed (aggiungo io) clamantis.

Ant.Mar.

sabato 7 luglio 2012

WELFARE E SPENDING REVIEW, BABY!

Il mio fastidio per la pressione, anzi l'invasione violenta e inavvertita che l'italiano sta subendo da anni dall'inglese, non viene da un mio presunto "purismo linguistico".

L'uso massiccio di termini inglesi, o presunti tali (tipo jogging, nel senso in cui lo usiamo noi), ha ormai invaso il linguaggio della politica e del giornalismo. Io ci vedo, e credo francamente di avere ragione, un problema di democrazia, o, per usare una parola meno equivoca, ma forse più sporca, di libertà. Controllare e analizzare queste parole è secondo me un buon metodo per vedere quanto gli italiani siano, vogliano, e sappiano, essere liberi. Molto poco in tutti e tre i casi, secondo le mie stime.

è facile da dimostrare il legame tra libertà e inforazione. Ma se l'informazione fosse negata nel momento in cui ce la danno, visto che ce la danno piena di termini che a un italiano sono estranei? Ci sembrerebbe di essere informati, ci sembrerebbe di essere liberi.

Sono sopratutto le persone colte, e gli ambienti colti, a usare l'inglese. Le classi più basse subiscono queste parole e basta, non le importano. anzi, dal basso vengono nuove formazioni italiane, talora riuscite, ma sempre e comunque condannate da linguisti e "intellettuali", gli stessi che all'università chiamano, un articolo scritto da un dottorando "paper" (pronunciato nel migliore dei casi "peiperr"). E già sarebbe poco grave, visto che in teoria gli scritti scientifici si rivolgono a un pubblico internazionale. Ma se poi sono scritti in italiano, e magari parlano di storia e cultura italiana (del tipo: "il socialismo in campania") e presuppongono quindi che il lettore anche se straniero abbia la conoscenza della lingua, della storia, dei costumi italiani; ma allora quel lettore potrà capire anche la parola "articolo", tanto più che se sa l'italiano (supponiamo un russo) non è detto che sappia l'inglese, anche se ci sono buone probabilità. Ma questo è il meno.

Quale strato della società potrà avere più bisogno di altre di un efficiente Stato Sociale? La più povera, ovvio; proprio quella che è guardacaso la più ignorante. E allora perché il ministero istituito allo scopo, in Italia, si deve chiamare del "welfare"? Un italiano come potrebbe capire la parola a fondo, sentirla propria, e in qualche modo sentirsi di riflesso tutelato, se non addirittura rappresentato da quel ministero, da quel pezzo dello stato? E sopratutto perché un minatore siciliano rimasto senza una mano dovrebbe sapere che vuol dire welfare?

Lo è o non lo è un problema di democrazia se questo governo usa parole come "spending review" invece di "tagli" o "riforma" o quel che volete per riferirsi a cose che riguardano ogni singolo cittadino direttamente? Anche se in teoria, molto in teoria, sappiamo tutti cosa si intende dire con questa sorta di formula magica, il fatto che la parola di per sè non sia facilmente riconoscibile a un parlante italiano, - che volendo, con uno sforzo metalinguistico, potrebbe analizzarla e farsi un idea personale - fa sì che questi la debba accettare e assegnarle un significato che gli viene spiegato, tralaltro, da Bruno Vespa. 

Io voglio che il macellaio sotto casa mia possa capire almeno il NOME di cose che riguardano anche lui, direttamente. Insomma, la classe dominante italiana, che lo faccia coscientemente o no, sta usando l'inglese più o meno nello stesso modo in cui don Abbondio (o era l'Azzeccagarbugli?) usa il latino con Renzo; il quale, non dimentichiamolo, a un certo punto, esasperato, mette mano al coltello...
Ant.Mar.

L'immagine appartiene al sito: www.nonsai.it. L'autore è Tiziano Riverso.

venerdì 6 luglio 2012

IL "MATCH" LO VINCIAMO NOI!

Il 26 giugno 2012, poco prima dell'incontro Italia-Germania, in un interessante articolo apparso sul Corriere della Sera, Isabella Bossi Fedrigotti, facendo un estroso parallelo tra lingua e sport, ci fa vedere come dal punto di vista linguistico vinciamo noi, o meglio, l'italiano vince sul tedesco. LEGAME

In che senso?
Nel senso che il tedesco ha subito negli ultimi ann una vera invasione di termini italiani mentre l'italiano non ha una tale quantità di termini tedeschi importati nella sua lingua. Questo fa di noi una lingua più prestigiosa. certo sono termini dovuti sopratutto all'alimentazione (tipo pizza e pasta; ma guarda!) e alla musica (da secoli, e in tutta europa, la musica parla italiano crescendo, con brio, allegretto ecc). 

come commenta la giornalista la simpatica "scoperta"? così: "il MATCH lo vinciamo noi".

Sarebbe interessante vedere, se vinciamo col tedesco 16 a 10 - ma non è poi tanto difficile, da questo punto di vista - di quanto perdiamo con l'inglese? Numeri da capogiro, immagino. 

Noi abbiamo computer, mouse, file e quasi tutti i termini informatici. Tutti, o quasi, i termini economici. Tutti, o quasi, i nomi commerciali di oggetti tecnologici; persino alcuni fabbricati e ideati in Italia. Poi abbiamo tutte quelle parole inglesi che usiamo per qualche misterioso gene che ci fa sembrar tutto ciò che è dell'impero dominante in quel periodo storico (facevamo lo stesso col francese), migliore del nostro. Ad esempio Match ("partita" è così provinciale!); o week-end.

Ma la cosa triste è che non lo vediamo. Anzi, istintivamente siamo contenti se la nostra lingua non assorbe il tedesco, cioè se rimane "pura".  

Ant.Mar.