DA
HASHTAG A MOT-DIÈSE: Ha fatto molto scalpore, in Italia (visto che in Francia non ne ha parlato quasi nessuno), la
scelta “purista” dei francesi di tradurre
la parola hashtag in mot-dièse (alla lettera: parola-diesis, o parola-cancelletto). La pubblicazione di questo nuovo lemma sul Journal Officiel de la Rèpublique française
è avvenuto il 23 gennaio. Scelta giusta o sbagliata? Sono dei “nazionalisti
linguistici”, i francesi? Senza alcun dubbio. Ma cosa li ha spinti a questa scelta, che molti (tutti?) in Italia
reputano sconsiderata?
Mi
sono fatto un’ideuzza: proprio pochi
giorni prima dell’ufficializzazione della traduzione francese, il 7 gennaio, la American Dialect Society, un po’ l’equivalente dell’Accademia della
Crusca per noi, ha deciso che la parola
dell’anno 2012, nella loro lingua, è hashtag.
Con
il crescere del successo di Twitter e
l’aumento degli utenti che lo utilizzano con regolarità, il termine è diventato
di uso comune per molti nell’ultimo anno. Negli Stati Uniti, qualche coppia particolarmente amante
della rete sociale ha deciso addirittura
di chiamare il proprio figlio Hashtag;
e l’ultima edizione prima del passaggio al digitale del noto magazine Newsweek
è stata intitolata con l’hashtag #LastPrintIssue.
A
mio avviso quindi, ma potrei essere troppo maligno, lo Stato francese si è detto: “ormai questa parola è talmente
conosciuta che non possiamo accettare
che non vi sia l’equivalente francese”… e
l’hanno creato. In realtà, Wikipèdia français ci informa che già qualche anno prima era stata
proposta la traduzione in “mot-clic”;
cioè parola-clic (parola da cliccare). Il problema era che questa traduzione si
adattava anche a “link”, che in francese si dice lien (“legame”). (sia detto tra paretesi: la voce di Wikipedia, anche in francese, è hashtag, non mot-diese...)
PRESTIGIO=POTERE:
se davvero è andata in questo modo, non bisogna pensare che sia una questione
di “purismo” o di sterile nazionalismo. È
una questione di prestigio culturale, che si traduce in potere. Non mi
metterò a cercare di dimostrare come la politica linguistica sia strettamente
legata alla politica in sé (cfr articolo): basterà ricordare che le tre lingue
principali (di fatto, anche se non ufficialmente) dell’Unione Europea sono inglese francese e tedesco: cioè le
lingue dei paesi militarmente ed
economicamente più potenti. Soprattutto l’inglese, non crederete mica che sia la lingua internazionale per la sua
semplicità grammaticale? Pecchereste di ingenuità: è la lingua
internazionale perché lingua dell’impero
dominante in questo periodo storico. Semplice e cristallino.
Ma
questo discorso, e sinceramente non capisco perché, in Italia non viene compreso. Né “l’uomo della strada” né il
politico di primo piano, in Italia, sembra capire lo stretto legame tra lingua/cultura
e prestigio/potere. A noi ci sembra che
i francesi siano i soliti altezzosi e nazionalisti che ritengono buono solo
ciò che è francese, in francese. Il che non è falso, ma neanche vero.
Qual
è, allora, il problema nel tradurre una parola che ormai si è imposta così, in
inglese, in tutto il mondo, e persino in quei paesi con una forte politica
linguistica, come la Spagna?
Il
problema non è l’eccessivo purismo
delle istituzioni francesi, e in particolare dell’Académie Française, ma l’eccessivo
controllo, che a noi italiani fa sempre e subito pensare alla politica
linguistica di Mussolini. Ad esempio, anni fa, l’Académie aveva proposto delle traduzioni per le parole “blog” e “spam”: rispettivamente “carnet”
(quaderno/ino) e “pourriel” (ibrido tra pourri (marcio) e courriel (posta). Ma una cosa è proporre, un’altra imporre,
come faceva la politica linguistica fascista. Infatti, nonostante queste
traduzioni “ufficiali” i francesi
continuano, e continueranno, a dire “blog” e “spam”. Ed è assai probabile
che anche hashtag continuerà ad
esistere, così com’è, anche in Francia.
È
UNA QUESTIONE DI QUANTITÀ: avere un’istituzione che persegue una forte politica
linguistica permette ai francesi di non
essere letteralmente invasi da parole inglesi, come accade da noi: la
Società Dante Alighieri parla addirittura di “genocidio linguistico”. Qualche parola è accettabile, ed è accettata persino in Francia, dove riconoscono ad
esempio l’efficacia dell’onomatopea “cliccare” (cliquer). Ma, se possono e se
riescono, adattano e/o traducono altre parole, come computer, mouse, file ecc (per restare in ambito informatico). Non costringono
nessuno, non sono estremisti, come
spesso si lascia intendere negli articoli sui quotidiani italiani. E NON sono gli unici, come pensiamo
noi. Anzi: anche gli spagnoli, i portoghesi, i greci, i polacchi, i tedeschi
ecc ecc traducono quando possibile. A dire
la verità, siamo NOI gli unici che prendono, supini e pigri, tutto ciò che
viene dal mondo anglosassone, senza alcuno spirito critico, senza alcuna
riflessione a riguardo. E questo non solo per quanto riguarda la lingua…
Un buon esempio è
“mobbing”, che
ha il senso che tutti noi riconosciamo, SOLO E UNICAMENTE in Italia: in inglese
la parola ha il significato generico di “molestia”, e giuridicamente, quindi,
non ha nessun valore (cfr articolo).
cfr l'immagine con "made in italy" |
Insomma,
se è vero che, forse, la Francia
controlla troppo e nazionalizza eccessivamente il linguaggio, è vero anche che noi siamo troppo lassisti
per quel che riguarda il nostro imponente, invidiabile e invidiato patrimonio culturale. Come non mi stancherò mai di dire, ciò che ci fa adottare tutti questi
termini inglesi, spessissimo
inutili, è lo stesso modo di essere che ci fa lasciar crollare i muri di Pompei. I francesi saranno anche
altezzosi; ma il Louvre rimane il più
bel museo del mondo, e il più visitato (cioè: soldi a palate). Se questo
per voi è nazionalismo, bé, dovremmo andare a lezione di nazionalismo. Ma non
lo è: è semplicemente conoscere se stessi,
le proprie radici, il proprio paese e il suo patrimonio. Che non vuol dire odiare gli altri, ma nemmeno amarli incondizionatamente.
Ant.Mar.
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