lunedì 7 novembre 2011

È SBAGLIATO!


Da quando studio linguistica mi càpita sempre più spesso di sentirmi domandare se è giusto dire così o cosà; oppure mi si chiede a bruciapelo l'etimologia e la provenienza di qualche espressione. Quando rispondo, la maggior parte delle volte, che non bisogna avere un approccio troppo normalista con la lingua, che per sua stessa natura non sta mai ferma (l'italiano poi è cangiante anche geograficamente), la reazione è di sdegno.

Ma se tutti dicono bàule invece di baùle, (pare che il primo sia molto diffuso, io non l'ho mai sentito); oppure dicono Nuòro, invece di Nùoro (a Roma, ad esempio, tutti e anch'io, lo dicono sbagliato), sarà poi così grave? Ancora; per quanto mi riguarda riconosco, e non mi urtano, sia Frìuli (sbagliato), che Friùli (Forum Iulii); sarà poi così grave?

Per dirla meglio, si può considerare sbagliato ciò che non è percepito come errore da nessuno? Con questa logica sarebbe un errore dire gioco invece di giuoco; direi invece, se proprio sono costretto a parlare di errore, che è piuttosto il contrario. Mi è capitato personalmente di assistere al seguente dialogo, tra una ragazza italiana e una francese: l'italiana dice “a me mi piace la birra dolce”, e la ragazza francese risponde “a me mi piace di più la birra amara”. Immediatamente l'italiana la corregge: “non si dice a me mi”. Mi sono fatto un idea ben precisa di ciò che era successo: la ragazza italiana usa l'espressione che usano tutti (o quasi) senza accorgersene, e accetta, senza accorgersene, la stessa espressione dai parlanti italiani in quanto dà per scontato che questi sappiano la lingua quanto lei. È stata invece pronta ad individuare l'“errore” nella locutrice straniera.

Al di là delle stupide sottigliezze che mi chiedono amici e conoscenti ci sono diversi esempi di “errori” che sono ormai diventati la norma ma che ancora sono percepiti come errori, quando sono percepiti. Cioè: tutti sappiamo che “a me mi” non si dice, eppure tutti lo usiamo, almeno in discorsi orali e non sostenuti. Ciò che offende i puristi in quest'espressione è la ridondanza; così come in attimino (un attimo è già piccolo; inoltre un'espressione come ad esempio "fare un attimino qlc" sembra un obrobrio). Ma le fragili orecchie di questi critici non si scandalizzano davanti a piccolino, forse perché è più antico. Attimino in fondo è un espressione nuova, e tra l'altro intraducibile, cioè prettamente italiana, che sfrutta al meglio la capacità suffissale che ha la lingua italiana. 

Proprio contro l'espressione un attimino se la prendeva, fra l'altro Filippo La Porta in un articolo che ho trovato quest'estate in un vecchio numero de “L'espresso” (che ormai ho perduto). In una frase esprimeva benissimo il difetto che io vedo negli “intellettuali” italiani; diceva più o meno, a proposito di queste nuove espressioni: “questo è l'italiano povero della middle class...”. Metteva il corsivo, certo, ma io credo che avrebbe potuto anche dire classe media, senza corsivo, e senza alcun danno alla serietà e efficacia dello scritto.

È povero un italiano che grazie alla sua espressività riesce a far diventare un attimo ancora più piccolo, o un italiano che per puro sfoggio di (falsa) erudizione usa un inglese inutile?

Quali sono i motivi per cui si condannano all'unanimità certi usi? Cito quest'articolo dal sito del corriere della sera: “[...] per non parlare di certe storpiature, in diminutivo o in accrescitivo, che spesso ahimé si rivelano contagiose: da un attimino a straordinario a incredibile all’ormai vetusto favoloso, fino al ripugnante megagalattico, che poté forse funzionare in bocca a un comico, e per una sola volta.” 
Queste parole sono ripugnanti: può essere la “bellezza” un criterio di scelta? La scelta sta ai parlanti, all'uso; punto e basta. Difatti, ammette l'articolo stesso, questi usi sono contagiosi; certo che lo sono, sono usi della lingua italiana che attualmente sta evolvendosi. Se sono usati da tutti intorno a noi, anche noi li useremo. Se l'evoluzione va verso un impoverimento,  (cosa tutta da dimostrare)la colpa è solo della scuola e (quindi) della classe colta, o che dovrebbe esserlo.

Perché tendiamo ad essere così ostili verso le innovazioni interne, e con altrettanta convinzione accettiamo espressioni non italiane e non necessarie? Forse all'idea di “scarsa fedeltà” che ho accennato nell'articolo (si, nel senso di post) precedente, bisognerebbe aggiungere un'altra conseguenza: che non sentendo la nostra lingua inter(n)amente nostra, non ci sentiamo del tutto autorizzati a cambiarla.

Può sembrare bizzarra come teoria, ma penso ai francesi (popolo e lingua che ho potuto conoscere da vicino) che hanno una concezione normativa e “ferma” della lingua ancora più dura degli italiani, che, comunque sia, sono abituati a diversità regionali non da poco. Eppure i francesi, forse proprio per questa fermezza linguistica, accettano moltissime nuove formazioni interne, molte delle quali per supplire proprio a neologismi che altrimenti resterebbero inglesi. Per cui il problema in Italia mi sembra che non sia troppo il concepire la lingua come un'entità astratta, ferma e, per così dire, eterna, quanto nel non identificarsi del tutto con la propria lingua, non al punto da adattarla, così com'è (cioè con le sue strutture coerenti) alla realtà da descrivere, sempre nuova. Perciò si ricorre a cosiddetti prestiti di lusso (o, come dico io inutili) dalla lingua prestigiosa di turno (attualmente l'inglese).

Ho detto che solo l'uso può decretare la scelta di una parola; allora perché me la prendo con anglicismi, che magari saranno anche “inutili”, ma che sono, di fatto, utilizzati? Non certo perché sono brutti o ripugnanti; ma perché  gli anglicismi introducono nel sistema coerente della nostra lingua delle eccezioni morfologiche e grafiche innanzi tutto; in alcuni casi persino sintattiche.

Ma sopratutto io credo che si impoverisca la lingua, condannandone le nuove formazioni spontanee da un lato, mentre le si appioppano espressioni straniere dall'altro. Mi sembra un italiano impoverito una frase come “sale lo spread, rischio default”, rispetto a un sincero “andiamo un attimino al bar”. L'inglese inoltre, in italiano, diventa un falso tecnicismo, che mi ricorda da vicino il latino di don Abbondio di fronte alla sete di giustizia di Renzo.

Ant.Mar.

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