Andrea Camilleri, scrittore, ideatore di Montalbano. |
“Se All’estero la nostra lingua è
tenuta in scarsa considerazione, da noi
l’italiano viene quotidianamente sempre più vilipeso e indebolito da una
sorta di servitù volontaria e di
assoggettamento inerte alla progressiva
colonizzazione alla quale ci sottoponiamo privilegiando l’uso di parole
inglesi.”
Così comincia, Andrea Camilleri, un suo articolo in difesa della lingua italiana pubblicato oggi su Repubblica, intitolato, si noti bene: "Non definitemi un autarchico, ma la nostra lingua sta scomparendo". I termini usati
fanno venire quasi il sospetto che lo scrittore abbia letto qualche articolo su
questo spazio, dove ripetutamente, da qualche anno ormai, si esprime questo
stesso identico concetto: la nostra volontaria sottomissione alla cultura
dominante, e il provincialismo
sottinteso a questo uso smodato di termini inglesi inutili.
“Il provincialismo italiano,
antico nostro vizio, ha due forme. Una è
l’esaltazione della provincia come centro dell’universo. E valgano i primi
due versi di una poesia di Malaparte, «Val più un rutto del tuo pievano / che
l’America e la sua boria»…, per dirne tutta la grettezza. L’altra forma è quella di credersi e di dimostrarsi non provinciali
privilegiando aprioristicamente tutto ciò che non è italiano. Quante volte
ho sentito la frase: «io non leggo romanzi italiani» o più frequentemente, «io
non vado a vedere film italiani».”
Ci fa notare Camilleri.
Che insiste
sull’importanza che la lingua ha assunto anche a livello politico nel nostro
paese, unico elemento a fare da collante
secoli prima che ragioni politiche e necessità storiche fecero la nazione unita.
Si ricorda in seguito di un suo bisnonno,
nato e cresciuto “nel più profondo sud borbonico” che aveva nella biblioteca,
in edizioni pre-unitarie, la Divina
Commedia, L’Orlando Furioso, i Promessi Sposi. Ma sottolinea anche l’apporto
fondamentale, e di altissima qualità,
che i dialetti e la letteratura dialettale hanno dato alla lingua e alla
letteratura italiana, a partire dallo stesso Dante.
Anzi, il creatore d Montalbano riflette
brevemente sul rapporto, certamente stretto, tra l’attuale situazione di impoverimento e la guerra mossa ai dialetti
almeno sin dai tempi del ventennio fascista (ma io direi sin dal rinascimento,
con Bembo). I dialetti infatti sono sempre stati una grande fonte di
rinnovamento il “sangue” della lingua
nazionale; e tentare di estinguerli è un suicidio culturale.
Insomma, Camilleri, fa delle
osservazioni inopinabili e una denuncia giusta quanto doverosa: “Se comincia a morire la nostra lingua, è
la nostra stessa identità nazionale che viene messa in pericolo”. Si notano
sempre più frequenti e sempre meno timide denunce in questo senso; finalmente l’intellighenzia italiana sta
cominciando ad accorgersi del problema, e chissà che non sia l’inizio per
un recupero del ruolo dell’intellettuale
impegnato che i francesi hanno inventato e che Pasolini ha portato forse al
massimo grado di efficienza e valore.
Tuttavia ritengo sia interessante riflettere su un punto. In
Italia, come si sa, non c’è un organo di “controllo”, un’istituzione che
gestisca e porti avanti una politica linguistica; cosa che invece è presente in
ogni singolo paese europeo. Da noi non c’è, sostanzialmente, perché l’unico
precedente nel Bel Paese fu l’Accademia Italiana, istituita nientemeno che da Mussolini
in persona; e il fascismo, come si sa,
perseguì una politica linguistica di stampo purista al limite del ridicolo,
anzi del tragico. Da allora nessun linguista o intellettuale ha avuto mai il coraggio in Italia di
proporre l’istituzione di un tale organismo; d’altronde l’ideale internazionalista
delle sinistre europee, dominante a partire dalla fine della Guerra, non
permetteva di rendere pubbliche certe considerazioni.
Per questo Camilleri, tra i primi e ancora pochissimi personaggi
pubblici ad esporsi su questo tema, sente
doveroso specificare (per prima cosa, nel titolo dell’articolo!) di non essere un fascista, di non essere un
autarchico. Quando gli italiani potranno proteggere e preservare la propria
identità-cultura, senza per questo doversi giustificare da accuse di
provincialismo, o di fascismo?
“Coll’augurio di non dover
lasciare ai miei nipoti non solo un paese dal difficile avvenire ma anche un
paese la cui lingua ha davanti a sé un incerto destino.”
Ant. Mar.
Il problema è che in Italia della Resistenza c'è rimasta solo la retorica, stucchevolmente antifascista, ma non lo spirito, per questo abbiamo vissuto gli ultimi vent'anni in una sorta di pseudo-fascismo da cui ancora non riusciamo a liberarci.
RispondiEliminaQuando ci libereremo finalmente da questo fantasma del passato, forse riusciremmo ad avere una classe politica decente e anche una politica linguistica seria. Comunque da qualche parte nel parlamento, dovrebbe ancora giacere la proposta di legge per l'istituzione di un Consiglio superiore della lingua italiana.
Non è detto però che l'istituzione di un consiglio superiore della lingua sia la soluzione. Ricordo un'intervista a Tullio de Mauro sull'argomento, in cui affermava più o meno "non ne vedo l'utilità; e ne vedo i possibili problemi".
EliminaNon affiderei a questa casse dirigente la lingua; d'altronde non si può cambiare l'uso imponendolo dall'alto. è vero che negli altri paesi ci sono simili istituti, ma ritengo che sia anche, e sopratutto, il rapporto che questi popoli hanno con la propria lingua.
Noi italiani siamo in un certo senso "infedeli" alla nostra lingua; ci rifletto brevemente in questo articolo: http://insuafavella.blogspot.it/2011/11/la-fedelta-degli-italiani-alla-propria.html