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Il 10
agosto 2012 il segretario dell’Associazione Radicale Esperanto (Esperanto Radikala Asocio; ERA) Giorgio Pagano ha pronunciato un discorso interessante e giusto, tranne che su alcuni punti. L’ottica da cui esamina la questione della
lingua italiana, in particolare per quel che riguarda l’economia linguistica, è
basata sulle idee dell’associazione che rappresenta, che si batte per l’imposizione
dell’esperanto come lingua internazionale. Abbiamo già trattato su questo
giornaletto il tema nell’articolo “inglese vs esperanto”. Riassumendo, in quell’articolo
cerchiamo di spiegare le condizioni per cui non è verosimile che l’esperanto
venga mai eletto a questo ruolo. Il problema è che questi militanti non
considerano la lingua nelle sue reali implicazioni politiche e persino
militari; non si rendono conto cioè che le lingue prestigiose, che vengono prese
come lingue internazionali, lo sono in quanto portatrici e rappresentanti della
cultura dominante in un preciso dominio storico. Dominante non solo e non per
forza militarmente, ma spesso; sempre dominante economicamente; che vuol dire
anche culturalmente. Il fiorentino in Italia sicuramente si è imposto per il prestigio
datogli dalle "tre corone"; ma bisogna pure sempre tener presente quale potenza economica
fosse Firenze e la Toscana allora in Europa e (quindi) nel mondo.
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G. Pagano. Sergretario dell'ERA |
La lingua è quindi fortemente legata a questioni della
società, della politica, dell’economia. Proprio sul potenziale economico dell’incoraggiamento nell’uso e nell’insegnamento
della lingua italiana parla l’intervento di Giorgio Pagano; che tra l’atro
dice:
“L'Italia
non può continuare a favorire invece
il processo di scalata inglese
distruttiva della lingua italiana, con gli enormi costi di risorse
umane e finanziarie che vanno ad ingrandire sempre di più il mercato anglo-americano e a restringere
inesorabilmente quello italiano e dei nostri giovani, costretti ad impiegare
12.000 ore della loro vita per favorire il monopolio
linguistico inglese e a sfavorire la loro stessa lingua".
Che il “processo di
scalato inglese” sia distruttivo per la lingua italiana, è un’idea che mi trova
d’accordo, anche se gran parte dei linguisti accademici non lo sarebbe. Io stesso inviterei alla prudenza; “distruttivo”
non lo è ancora; lo sarà presto se la tendenza continua così forte e senza
nessun ente che funga da filtro (non di controllo) come hanno le altre lingue
europee. Ma lanciare l’allarme è una
cosa che mi sembra giusta e doverosa, e che nel mio piccolo faccio, in questo spazio.
Quanto segue, delle parole di Giorgio Pagano, è assolutamente giusto, e per di
più evidente: il mercato “in italiano” è tutta una fetta di mercato che è
penalizzata dall’anglicismo imperante. Ma
sarebbe vero se gli italiani sapessero l’inglese! Cosa che - è sotto gli
occhi di tutti - non è. E i turisti per primi se ne lamentano. Prova ne sia che
il regolamento di twitter, per gli utenti italiani, è tradotto (leggi articolo).
Cioè, si è creato del lavoro, c’è stato bisogno di un servizio.
Più avanti Giorgio Pagano sembra
suggerire allora che non si insegni altro che l’italiano, sai quanto lavoro! quando afferma che:
“La
Gran Bretagna sul non insegnamento della lingua straniera
nelle proprie scuole risparmia 18 miliardi di Euro l'anno, mentre l'Italia ne
spende 60, di miliardi l'anno, per colonizzare
la mente dei propri giovani nella sola lingua inglese.”
Molti neuro-linguisti affermano che sapere una lingua straniera aumenta la capacità di riflessione metalinguistica e quindi la conoscenza interna (o intima) della propria lingua materna; gli italiani, infatti, di questa consapevolezza ne hanno ben poca. Proprio per questo, d’altronde, non abbiamo le difficoltà che hanno spagnoli francesi greci portoghesi tedeschi ecc ad accettare parole straniere non adattate. Sarebbe quindi auspicabile che accanto a un insegnamento migliore della lingua italiana nelle scuole italiane si insegni, più degnamente di quanto non si faccia oggi, anche le lingue straniere; e, perché no, i dialetti e la letteratura dialettale migliore di tutte le regioni. "Colui che non sa le lingue straniere, non sa nulla della propria." (Johann Wolfgang von Goethe)
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un volantino dell'ERA |
Se la Gran Bretagna,
che non ha un sistema vero di istruzione pubblica, vuole far restare ignoranti
i propri cittadini questi sono affari suoi; d’altra parte gli inglesi, forse è sfuggito a qualcuno, parlano inglese. Cosa dovrebbe
fare l’Italia? Non insegnare l’inglese nelle scuole, per risparmiare soldi? Ma siamo
seri, per favore! È FONDAMENTALE che si insegni inglese a scuola; anzi, lo si insegna poco! E bisognerebbe
anche farci studiare una seconda lingua straniera, magari meno
approfonditamente, darci un infarinatura anche di spagnolo, o francese, o
tedesco, o greco moderno. Una seconda
lingua proprio per non “colonizzare la mente dei propri giovani”; cosa che
accadrebbe se insegnassimo solo l’italiano. Cosa che accade quando, insegnando
l’italiano, non facciamo alcun accenno ai dialetti e alle letterature
dialettali.
Ma, ancora, ha ragione
Giorgio Pagano a lanciare un allarme: non
c’è pericolo che si smetti di insegnare inglese; il pericolo è che si smetti di
insegnare (in) italiano! Come chi legge saprà, una delle proposte più
spaventose dell’attuale ministro della pubblica istruzione Francesco Profumo è quella
di istituire dei corsi interamente in
inglese per attirare studenti stranieri. Roba da far tremare le ginocchia. Qui
davvero si può usare la parola colonialismo.
Solo che il nostro è un
colonialismo quasi autoimposto; “quasi” perché le pressioni anglicizzanti
sono certamente forti; ma noi, in Italia, le accettiamo immediatamente e in
certi casi, come questo, ce le
inventiamo noi, queste pressioni. Credete forse che per attirare studenti
stranieri la Francia, o la Spagna,
facciano corsi in inglese? Lo fanno, e solo per le materie economiche, gli svedesi, e altri popoli che non hanno una forte tradizione linguistica;
cosa che oi italiani infatti abbiamo solo a metà; solo per iscritto. E lo fanno
i cinesi, che per attirare gli occidentali, davvero non possono pretendere che
sappiano il cinese tanto bene da seguire un corso universitario.
Andare, per un
italiano, a studiare all’estero è anche
un occasione per imparare veramente una lingua straniera. Quello di cui non
ci rendiamo conto è che i tedeschi, i francesi, gli spagnoli, che vengono in Italia a studiare, vengono anche
loro per conoscere una lingua, una cultura, diversa. E i turisti, che
vengono in Italia, in senso metaforico, non cercano pizzahut; ma la Pizza. Come noi a Parigi cerchiamo le crepes.
Una volta un francese mi chiese come si dice “ordinateur”
in italiano. Gli risposi “computer”, e lui ne rimase stupito, un po’
divertito-un po’ infastidito; mi ricordò la reazione di una ragazza americana, una volta, nell’accorgersi che di fronte al Pantheon, a Roma, ci abbiamo piazzato
un bel Mcdonald’s. Mi disse che a lei, da straniera, sarebbe piaciuto
trovarci una specie di “pizza-pasta fast-food”
… (vabbè, gli americani…).
Counque sia, l’italiano
non si protegge non insegnando l’inglese; ma
insegnando meglio l’italiano e di più l’inglese. Dividerli, ognuno nella
propria bellezza e potenza di lingua; avere coscienza di entrambi come di due
idiomi distinti, di modo che, forse, sviluppando meglio la riflessione
metalinguistica, saremo meno pigri nella traduzione e eviteremo certi inutili
intrusi nella nostra lingua.
Per rispetto innanzi
tutto della nostra lingua italiana, e poi anche della bella lingua inglese.
Ant.Mar.
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